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QUOTIDIANO PER L'ETERNITA'

Rubrica

A CURA DI PAOLO VACHINO

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8 Maggio 2020

Sono circa trent'anni che passeggio nei boschi narrativi e poetici di Cesare Pavese. Il mestiere di vivere, il diario pavesiano scritto tra il 1935 e il 1950, anno del suicidio, potrei definirlo la mia seconda casa. Certi libri mi riportano all'infanzia, a quando giocavo con l'album delle figurine dei calciatori. Un album di ritratti assenti, che andavano colmati andando ad acquistare bustine di figurine, da incollare negli spazi appositamente riservati. A questa primaria missione si affiancavano le attività minori che riguardavano le figurine doppie, innescanti con gli amici baratti, mercimoni, e soprattutto sfide “a lungo”, “a muro”, “a capovolta”. Ma questa è una digressione che porterebbe ad altri ricordi. Certi libri, dicevo, sono proprio come gli album delle figurine. Contengono ritratti assenti, che vanno colmati con le nostre esperienze. Mi spiego meglio. Le poesie, gli aforismi, i diari, sino ad arrivare ai romanzi, persino quelli lunghi, a una prima lettura rimangono proprio come i ritratti assenti dei calciatori. Le riletture sono la riempitura di quegli spazi con la nostra esperienza.  Si riempiono come gli album con i volti dei calciatori. Ritratti non più assenti ma presenti di noi. Ri-tratto è, appunto, questo doppio tratto. Trarre dalle parole e trarre dall'esperienza. Due tratti che si uniscono. E prendono un senso.

I due mesi di quarantena a causa del Coronavirus hanno portato un'altra figurina nell'album delle mie ri-letture pavesiane. Scriveva Pavese nel suo diario, proprio agli inizi della sua stesura: “Dei due, poetare e studiare, trovo maggiore e più costante conforto nel secondo. Non dimentico però che mi piace studiare in vista sempre del poetare. Ma in fondo il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo”. In questi due mesi - a fronte di una sola poesia scritta – ho una messe di libri falciati dalle riletture e dallo studio. Ho trovato quindi più costante conforto nello studio, anche se poetare è una ferita sempre aperta e - nel caso mio - irrimarginabile. La parola studiare ha un'infanzia bellissima. Da bambina era un sollecito. Sollecitare. Smuovere qualcosa d’intero. Muoversi all'interno di un tutto. Senza soluzione di continuità. In questi giorni, casualmente, mi è capitato di sentire cantare Irene Grandi. Così mi è tornata alla mente una sua canzone. La cometa di Halley. E mi ha risvegliato una suggestione. Da anni sono ipnotizzato dall'idea di scrivere l'unico romanzo della mia vita. In esso, una coprotagonista sarebbe proprio la cometa di Halley. Perché sono sempre stato affascinato da questa cometa, che porta il nome dell'astronomo che l'ha scoperta. Edmond Halley, vissuto tra il Seicento e il Settecento. Poco meno che quarantenne, nel 1682, osserva in cielo la cometa e ne studia il transito, ne calcola l'orbita, predicendone il ritorno per l'anno 1758. Solo che lui non visse abbastanza per ammirare il nuovo transito celeste. In ogni caso, da quell'anno la cometa prese il suo nome. La suggestione della canzone ascoltata mi ha innescato un allegro rimuginìo. Ricordavo una poesia ma non mi ricordavo di chi. Mentre transito in bagno per lavarmi i denti m’imbatto in un libro: Odi e inni di Giovanni Pascoli. Imbattermi in un libro significa che è il libro a proporsi. Un farsi avanti rompendo le righe della mensola. Un invito a essere sfogliato. Molto premurosamente, come una madre con un cucciolo, gli concedo sempre la mia attenzione. E comprendo la ragione del suo farsi avanti. Ritrovo la poesia che cercavo. Alla cometa di Halley. Pascoli scrive questa poesia per placare una provocazione di uno storico tedesco – R. Davidsohn - che in un articolo del 1909, scritto proprio in occasione dell'imminente passaggio della cometa, previsto per l'anno successivo, così concludeva: “Ma se non abbiamo un Dante, abbiamo molti dantisti e se ci manca la fantasia d'una volta, siamo indubbiamente più forti nell'abbaco”. Pascoli si sente chiamato in causa, addirittura sfidato. In una settimana compone freneticamente una poesia in terzine dantesche, con un attacco folgorante: “O tu, stella randagia, astro disperso, / che forse cerchi, nel tuo folle andare, / la porta onde fuggir dall'universo! / Le stelle, quando la tua face appare, / impallidiscono; ansa nei pianeti / l'intimo fuoco, alto s'impenna il mare.” Per passare a ritrarre Dante e la sua titanica impresa della Commedia. “Egli guardò. Non vide che una selva / oscura, e sopra il sonno delle genti / del mondo reo sentì latrar la belva. / Vide l'abisso con racchiusi i venti, / le fiamme e il gelo, e la perpetua romba / delle grandi acque, e lo stridor dei denti. / Udì l'alto silenzio che rimbomba / eternamente; e il lume del sentiero / scòrse, ch'è tra le stelle la gran tomba. / Egli era il peregrino del Mistero. / E tu la morte gli accennasti, ed esso / la vide, e l'abbracciò col suo pensiero, / e sì l'uccise nel potente amplesso /”. In tredici versi la sintesi della Divina Commedia. Questa è la poesia maiuscola. Tre cantiche in tredici versi. E nascerà un poeta che scriverà di tredici versi un verso. Universo. E in quell'universo tutto il silenzio delle origini, da cui torneranno a sgorgare infiniti nuovi versi. Pascoli vede passare la cometa insieme a un altro illustre poeta. Dino Campana. Che proprio nel 1910 parte da Marradi e raggiunge a piedi il Santuario di Chiusi della Verna, lasciando di questo pellegrinaggio una scia luminosa nei Canti Orfici: “La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche. L'ultimo asterisco della melodia della Falterona s'inselva nelle nuvole. Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani abeti, l'avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la lunga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su sé stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco.

Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell'antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l'elemento grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.

Riposo ora per l'ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate!”.

Che meraviglia. Nei cieli di Firenze, nel 1301 e fino ai primi di gennaio dell'anno successivo, transita avvistabilmente la stessa cometa. Dante in quell'anno viene esiliato e comincia a comporre quella meraviglia del mondo che è la sua Commedia – l’estremo pellegrinaggio umano che lo porta sino al cospetto della luce eterna. Dino Campana sotto la stessa scia luminosa, poco più di seicento anni dopo, si mette in cammino. E ripensa a Dante, alla sua poesia di movimento. E al mistero del cielo e delle stelle. “Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all'agguato dell'infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall'eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute”. Quella stessa scia visibile nel cielo alla fine dell'anno 1986, e fino ai primi di gennaio dell'anno successivo. Quell'appena percettibile sciame luminoso che le mie pupille ne conservano ancora una traccia, come piccoli brillantini sulle guance di una damigella. Cipria cosmica. Proprio nello stesso anno in cui me ne andavo di casa per incontrare il mondo. Non affatto in esilio. Al contrario. Un vero e proprio rimpatrio nel mondo, dal quale ero stato esiliato dalle tentacolari spire materne. Mi piace pensare a questa cometa come un grande rastrello di luce. Arnese rustico dentato che trascina oltre a sassi e impurità del terreno, fili d'erba foglie e fieno, anche uomini che desiderano cominciare l'unico pellegrinaggio per cui valga la pena mettersi in cammino. La vita. A questo punto, la danza degli scaffali che intreccia immancabilmente letture e vita mi ha condotto all'ultimo volteggio in aria. Alla descrizione di una cometa, contenuta nell'ultimo racconto di un libro straordinario – Mania - scritto da un autore straordinario. Daniele Del Giudice. In questo racconto (involontariamente?) profetico, per la sua esistenza non tanto di scrittore ma di uomo, dal titolo - Come cometa - si legge una descrizione di un corpo celeste che anticipa la condizione – ahimè - del corpo di carne dell'autore, il quale oggi vive col sussidio della legge Bacchelli, in una casa di riposo all'isola della Giudecca a Venezia, esiliato da se stesso, dalla sua memoria, dalla scelta libera di essere uomo, colpito da una spietata malattia (l’Alzheimer) che sembra essere il crudele contrappasso del suo stile letterario, intriso di precisione, esperienza, osservazione. Memoria, appunto.

Il mio lungo pellegrinaggio nelle galassie che sono i libri tra le pareti casa termina con quest'ultimo raggio cosmico, particelle energetiche in forma di parole. Potenza assoluta del mistero e della magia contenuti in ogni vera scrittura.

“... Come cometa non ho una grande magnitudo, ma sono feconda, sperma celeste, ovulo celeste, femminile-maschile qui non conta, mi chiameranno Anita, sarebbe adeguato, piccola Anna, meglio Anita che un impronunciabile nome giapponese o la numerazione dei corpi celesti, tanto i nomi non contano niente, coi nomi non si prende niente, non prenderanno nulla di me, non ho spiegazioni, non ho volontà, non ho finalità. Come cometa sono soltanto violenza vitalità e catastrofe, astro disastro, la buona stella o la stella discorde, vengo dalla zona di chi è stato tagliato fuori,  dalla zona estrema dei corpi non nati, troppo lontani dal sole al momento in cui tutto si generava per collisione e conflitto, e in quella nube sono rimasta interdetta e confinata, nube di Oort, sono rimasta lì ai margini, pianeta mancato, gravida di materia originaria e schegge schizzate da ciò che si andava creando e deflagrando, come cometa sono feconda, porto ciò che chiamiamo vita, ma per fecondare devo distruggermi, abbattermi su un corpo e penetrarlo rovinosamente, lacerandomi-lacerandolo, mescolando i miei liquidi, acqua e ghiacci, alla sua aridità. Fra un milione d'anni può darsi, fra un milione di probabilità, magari mai più. Come cometa sono un viaggiatore perenne, periodico, ad ogni periodo perdo qualcosa, ad ogni periodo orbitale mi assottiglio col sole, come cometa non sono niente, se non i nomi e le motivazioni che mi danno al passaggio, non ho volontà, non ho spiegazioni, non ho alcun fine, non ho memoria, ogni volta è una novità, come cometa, mentre mi osservano, me ne sto andando...”. 

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2  Maggio 2020 

 

Certe mattine non sono io a scendere dal letto. È lui che mi catapulta nel mondo. Un metafisico imbizzarrimento del materasso ed eccomi pronto alla lunga marcia del giorno. Questa mattina mi sono alzato presto perché intenzionato a uscire per fare la spesa al supermercato. L'uscita settimanale dedicata all'approvvigionamento. All'apertura eravamo già una quindicina di persone in fila. Rivedo un conoscente che mi saluta transitando a una distanza di ultra-sicurezza. Vengo attraversato da una trafittura di malinconia per prossimità che sembrano appartenere a un'epoca remota. Era solo l'altro ieri. Questa piccola venatura di tristezza si dissolve non appena entro. I frutti e le verdure dai mille colori mi mettono sempre di buon umore. Cromoterapia. Scelgo con calma, mi dirigo alla cassa, esco sul piazzale assolato, respiro forte perché oggi arriva aria salsedinosa dal mare. Talassoterapia. Torno a casa e ri-esco per portare Dario (il mio amatissimo galgo spagnolo, adottato ormai più di sei anni fa) alla piccola sgambata mattutina lungo fiume, di fianco a casa, nel rigoroso raggio di duecento metri in cui è consentito camminare per non incorrere in sanzioni, in questo periodo di libertà vigilata. A quest'ora, non ancora le otto, sono quasi sempre da solo. Anzi, siamo in due. Io e Dario. Lungo i canneti della riva destra del fiume Marecchia. I levrieri non sono cani con un elevato tasso di fisicità. La esprimono - tutta - solo quando corrono. Fulmini radenti il suolo. Normalmente sembrano delle modelle che sfilano in passerella. Algidi e austeri. Aristocratici. Dario è un'eccezione. Sei anni di Romagna lo hanno trasformato in un bagnino riminese. La romantica bulleria del maschio predatore. In mezzo al fiume qualche airone che si picchietta le ali con il becco. Anatre pigre che dondolano nella leggera corrente salmastra. Gabbiani che fanno la spola dai canneti al mare, che dista meno di trecento metri. In questi giorni di assenza di traffico sembra di trovarsi along the river, lungo il fiume della struggente ballata springsteeniana. Poco più avanti, prima di giungere al ponte di legno, scorgo un signore con un piccolo cane, che non riconosco, accovacciato tra l'erba che sta crescendo. È buffo pensare che chi porta a spasso i cani si ricorda dei cani e mai i volti dei padroni. Quando lo raggiungo, lui si rialza, si volta verso di me di scatto, mi saluta e mi porge un quadrifoglio, dicendomi: “Tenga, lo porti a sua moglie”. Lo ringrazio di cuore, con un sorriso che li riassume tutti, carico di meravigliato stupore. Non faccio in tempo a fare due passi, che vengo richiamato: “Tenga questo, è ancora più bello”. Restituisco il dono ricevuto con il dono ancora più bello. Non avevo un sorriso migliore da ri-regalare. Avevo espresso il mio superlativo assoluto. L'ho rinnovato tentando di riprodurre la stessa smagliante filigrana. Una commistione di commozione e riconoscenza. Spero di esserci riuscito. E m’incammino verso casa. E penso alla meraviglia di questo gesto semplice. L'incarnazione della parola 'dono'. In tutta la sua purezza. E soprattutto per il simbolo che rappresenta il quadrifoglio. Ogni foglia rappresenta qualcosa di assoluto. Speranza. Fede. Amore. Fortuna. Per questo, trovarne uno significa imbattersi in un lieto presagio, in una buona sorte. Il signore – stamattina - ne aveva trovati due. E ha subito pensato di donarne uno a un altro. Come fosse preziosa manna sfamante. A lui bastava portarne a casa uno. L'altro era per me. Anzi, per mia moglie. (che non ho - ho una compagna). La cultura di vecchio stampo e tradizione, che vede in un uomo della mia età un marito. E forse anche per un inconscio e puritano pudore. Un maschio che dona un fiore a un altro maschio (non sia mai).  “Tenga, lo porti a sua moglie” - detto a voce alta - era la didascalia perfetta per evitare ogni fraintendimento, e per sottolineare la similitudine tra le donne e i fiori. Stessa grazia e meraviglia. E poi questo secondo slancio. “Tenga questo, è ancora più bello”. Riservare il quadrifoglio più bello per la moglie di uno sconosciuto. Per infonderle speranza fede amore fortuna, oltreché bellezza. Un pentafoglio. La foglia invisibile della bellezza aggiunta alle altre quattro dal signore sconosciuto con il cane. Questo gesto mi ha riscattato l'idea del quadrifoglio che mi portavo dietro da decenni, per aver letto gli ultimi versi di una poesia di Guido Gozzano e soprattutto per essere nato a venti chilometri da dove lui ha trascorso la vita. “Un desiderio? sto / supino nel trifoglio / e vedo un quadrifoglio / che non raccoglierò /”. Un triste spreco. Non si può smettere di traboccare di speranza fede amore fortuna. Vanno sempre colte. E, semmai, proprio come questa mattina, donate. Così mi è venuto in mente la traduzione di Erri De Luca del capitolo undici del libro che noi chiamiamo Ecclesiaste e che gli Ebrei chiamano Kohèlet.Manda il tuo pane sul volto delle acque che in molti giorni lo troverai”. Erri De Luca ha sostituito la preposizione 'in' ( molti giorni lo troverai)  a 'dopo' (molti giorni lo troverai). Questa la sua riflessione.

È lo splendido invito a privarsi anche del necessario, il pane appunto, per compiere un'offerta. Anche se essa è puro spreco, gettarla alle acque, pure rientra in uno scambio totale con il creato e con gli altri, uno scambio regolato da una generosità celeste, perfino assurda. Un atto di pura offerta viene presto o tardi risarcito: getta dunque il tuo pane sul volto delle acque. Non mi convinceva però la traduzione della seconda metà del verso: 'dopo molti giorni lo troverai'. Mi sembrava veramente simmetrico, di giro postale, quell'intervallo di giorni dopo i quali la parabola dell'offerta, come quella del boomerang, sarebbe ritornata intera nelle mani del lanciatore. Proprio così meccanico era lo scambio tra l'offerta e il suo ritorno? […] Me lo ripetei due, tre volte e d'improvviso capii: il verso di Kohèlet andava tradotto in un altro modo. Eccolo:  'Manda il tuo pane sul volto delle acque che in molti giorni lo troverai'. Sì, troverai quella singola offerta spontanea, insensata, la troverai ricevendola in cambio molte volte, in molti giorni. Non ti verrà restituita secondo una semplice simmetria, secondo il ragionevole postulato della fisica per cui a ogni azione corrisponde un'azione uguale e contraria, non ti verrà corrisposta come un prestito o un rimborso, ma la troverai moltiplicata nei giorni. Perché la grazia aggiunge di suo e largamente a ricompensa di chi offre il proprio pane alla corrente. Al generoso restituisce con soverchio. Kohèlet ha saputo che c'è una legge misteriosa di Dio che somiglia a quella di natura per la quale il seme gettato dal contadino sulla superficie della terra ritorna, nel tempo, ingigantito in pianta, in albero, in raccolto”. 

Questa mattina, vicino alle acque salmastre del Marecchia, uno sconosciuto con un cane ha mandato il suo pane sul volto delle acque. Mandato sul volto di un altro sconosciuto con un cane. Che ha raccolto in dono il suo raccolto. Il pane della bellezza. Che sfama quanto quello di farina. E racconta che la bellezza transita così nel mondo. Tra le mani di due sconosciuti.

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1 Maggio 2020    Uscita operai

 

Mentre l’automobile compie il periplo

di una Torino dicembrina, ho l’impressione

di stare circumnavigando la torta

della mia adolescenza pedemontana, dove

le candeline sono queste montagne

velatamente innevate, che sembrano avvicinarsi

alla pianura, durante gli inverni spessi

di una regione di confine, quasi a volersi scaldare

sui fumi di una marea di camini,

che come tanti pinguini sembrano segnalare

destini differenti, sotto tetti spioventi

e lastrici solari, a nascondere furori

postribolari dopo sfinenti orari di lavoro.

Nella terra sabauda ha sempre contato

il decoro più dell’essenza,

il lavoro più che l’aderenza ai sogni.

 

Torino è stata la capitale dei bisogni soddisfatti

frotte di manovalanza operaia - dal sud al nord

attratte dall’alzaia di un salario, anoressico ma mensile,

mestruo monetario ancor più vile di quello del ciclo vitale,

con la Mole Antonelliana a far da albero maestro

di questa nave di cemento e di mattone,

dove per un soffio mancato la Rivoluzione settantasettina

sarebbe riuscita a fare della fabbrica la vetrina del proletariato,

che avrebbe pranzato ogni giorno con un brasato

al barolo ben cotto, una vincita al lotto permanente

e non soltanto sotto lo sberluccichìo sansilvestrino,

trasformando Torino nell’Utopia di Tommaso Moro.

 

E invece per gli anni a venire: lavoro, lavoro duro,

soltanto lavoro, sempre più precario perché una parte

di salario doveva essere distratta per rinnovare l’oro

sui turiboli e nei tabernacoli delle chiese parrocchiali,

negli spettacoli gladiatorii degli stadi di calcio,

dove lo sport è diventato il pretesto per l’innesco

di guerriglie metropolitane, dove rimane sullo sfondo

il senso profondo dell’agone, una singolar tenzone medioevale

dove meno importano le regole di gioco del codice penale.

 

In quest’occidente apparentemente post-industrializzato

dove la fabbrica sembra essere un ordigno bellico

disinnescato dalla globalizzazione, in cui tutte le informazioni

con tanto di sudorazione ed emozione incorporata

vengono recapitate al capezzale di ogni individuo che si crede

estremamente vitale, semplicemente per essersi seduto

davanti allo schermo di un’astronave ricoperta di tasti,

dove pensieri guasti e gesti rimasti intenti vengono triturati

dalle distanze dagli altri corpi, tutti morti nel reale

vivi soltanto dentro alle storie raccontate

male da prosseneti mediatici, da demiurghi

banalizzanti persino il mondo ultrasensibile,

nell’immobile scricchiolio delle galassie relazionali.

 

In quest’occidente delle multinazionali pronte a creare

e non a soddisfare bisogni, dove persino i sogni

vengono sponsorizzati dalle agenzie pubblicitarie,

esistono ancora dei luoghi, nelle campagne, deficitari

di questi lenti sgretolamenti terzomillenari,

e il paesaggio ha sapore d’antico, dove sotto a un fico

si vedono ancora bambini giocare a mosca cieca

e nel centro del paese la paninoteca

non ha ancora soppiantato la panetteria,

l’emeroteca il giornalaio, la discoteca la balera

poco illuminata e maleodorante degli afrori

dell’esercito danzante a due a due, asinello e bue

a riscaldare la mangiatoia di un amore nascente,

nell’irriverente misoneismo verso tutte quelle trasformazioni

considerate esecuzione capitale dell’implacabile rullo abitudinario,

dove si scrive la prima pagina del diario e tutto il resto

è un perfetto calco in gesso impresso nel sudario esistenziale,

dove ogni astrazione viene paracadutata nel reale,

per cui le rette parallele diventano solo dei binari

e gli assi cartesiani sono la terra sulle ascisse e sulle ordinate i mattoni,

come il nucleo e gli elettroni sono la piazza del paese

e la scia delle emozioni esalanti dal cozzo delle gonne

e dei pantaloni dei compaesani, giovani e vecchi calati

come tanti secchi nel pozzo della vita rurale,

condita dal sale del pettegolezzo, con il ribrezzo e l’avversione

per tutto quello che rappresenta il meridione del mondo

portatore sano di adulterata alterità,

corrompente la florida prosperità del laborioso settentrione,

la sensualità del sudore sulla fronte e dei calli sulle mani,

e la differenza tra la nebbia e le nuvole

è uno stupido perditempo

che raccontano le favole,

che si devono leggere ai bambini,

ma solo per farli dormire e crescere in fretta,

per ridurre il tempo tra la tetta e il trattore,

dove prima si diventa lavoratori

prima si alzano i tenori della vita familiare.

 

In questo occidente plurisecolare, dove il valore

del focolare è stato molto poco discusso per troppo tempo,

dove il vento della rivoluzione invece di fare

tremare le obsolete istituzioni le ha soltanto solleticate

al fondo dei pantaloni, dove gli scossoni

dei cambiamenti epocali - ha creato pochi squilibri ormonali,

tra i tanti cartelli stradali disseminati nel verde delle campagne,

eretti sul margine dei fossi, come quei celebri papaveri rossi

- cantati dal genio della parola dalla voce anarchicamente baritonale -

ne ho intravisto uno, che mi ha provocato un sussulto

iconico-emozionale - un normale cartello triangolare di pericolo,

un triangolo bianco e rosso capovolto in verticale,

in cui campeggiava una scritta centrale

Uscita Operai.

 

Quando ho raccontato quella visione mi è stato detto:

“scherzerai?”, gli operai mica sono animali

o una specie protetta in via d’estinzione

sarà stata la tua malata immaginazione rincorrente l’utopia

che vorrebbe guarente ogni male sociale,

in cui hai sognato che potesse ancora esserci una fabbrica

con dentro tanti lavoratori, che come i tori impazziti

per le vie di Pamplona si catapultassero sulla strada

tutti allo stesso momento, nel fervore dato dall’ammutinamento

di fine turno, da cui poteva iniziare il diurno rincasare

nell’abbraccio di moglie e figli, artigli di carne in attesa

di un salario che aroma di antico reddito proletario.

Così, ogni volta che non si viene creduti

si ricorre alle pagine di un diario con la speranza

che un giorno qualsiasi, qualcuno a tempo non scaduto

trovi queste righe e rifletta se quel cartello stradale

possa essere qualcosa di più di un perduto desiderio

di una semplice allucinazione,

suggerente (forse) (per certo)

che anche nell’era nucleare,

qualcuno ancora è felice

scaldandosi con il carbone.

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29 Aprile 2020

Le strade deserte di questi giorni evocano un aggettivo per il clima che si è venuto a creare. Kafkiano. Assurdità, paradossalità, inquietudine. Un autore – Franz Kafka – che si trasforma in un aggettivo sta a significare che la sua narrazione e il suo stile sono diventati un nuovo attributo del mondo. Chissà cosa direbbe Kafka al cospetto di un contesto kafkiano? Forse non lo riconoscerebbe affatto. O forse chiederebbe aiuto ai suoi lettori, che non sperava di avere, avendo ordinato al suo carissimo amico e unico erede – Max Brod – di distruggere tutto ciò che aveva scritto. L'umanità ha ricevuto in dono l'immenso capitale delle sue opere letterarie grazie a un tradimento di una volontà. Forse l'erede ha proprio il compito di prendere in mano il lascito e impadronirsene. Farlo suo. E in questo caso, di tutti. La vita continua nella trasformazione. Proprio come una lettura di un testo traduce - nel senso di portare al di là – il senso che l'autore ha consegnato alle sue parole. Ogni lettore, in fondo, è un erede dell'autore. Così come Max Brod ha liberamente interpretato una volontà testamentaria, così un grande lettore di Kafka ne ha intravisto qualcosa di ulteriore rispetto alle allucinanti desolazioni che hanno contribuito al conio dell'aggettivo kafkiano. Questo grande lettore è Italo Calvino che - nella prima delle sue mai tenute “Lezioni americane”, dedicata alla “leggerezza”, – sceglie di chiudere con un'immagine tratta da un racconto di Kafka. Il Cavaliere del secchio. Le lezioni che Calvino avrebbe dovuto tenere all'Università di Harvard, nell'anno 1985, erano state pensate come “Sei proposte per il prossimo millennio”. Se non stupisce che Calvino abbia scelto la leggerezza quale prima proposta per affrontare il nostro millennio, colpisce invece il richiamo a un racconto di Kafka, che viene così descritto: “è un breve racconto in prima persona, scritto nel 1917 e il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in quell'inverno di guerra, il più terribile per l'impero austriaco: la mancanza di carbone. Il narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all'altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa di un cammello”. Il racconto di Kafka ha un unico elemento di leggerezza, il volo dentro a un secchio. E su questa immagine Calvino si è soffermato a riflettere, prendendola addirittura a simbolo augurale del nostro traghettamento al terzo millennio: “Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi”. Calvino sembra suggerire che, di fronte alla misteriosità di un autore, il lettore debba salire sull'aliante della propria fantasiosa immaginazione e trasformare quella che poteva essere una semplice uscita di casa alla ricerca di un po' di carbone “in una quête di cavaliere errante, traversata di carovana nel deserto, volo magico, al semplice dondolio del secchio vuoto. Ma l'idea di questo secchio vuoto che ti solleva al disopra del livello dove si trova l'aiuto e anche l'egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, - apre la via a riflessioni senza fine”.

La prima riflessione - suggerita da Calvino - è che la leggerezza stessa può avere qualche controindicazione. Come, per esempio, uno scollamento dal reale, al disopra dell'egoismo ma anche della possibilità di trovare aiuto. L'uomo che esce di casa alla ricerca di carbone teme che il carbonaio rimanga insensibile alla sua supplica di ricevere un po' di carbone senza un'immediata contropartita di denaro: “devo dimostrargli con precisione che non ho più neanche una briciola di carbone e che pertanto egli è per me addirittura il sole del firmamento […] devo presentarmi come il mendico che rantolando dalla fame sta per morire sulla soglia […] Il mio stesso arrivo deve decidere ”. L'uomo che cerca il carbone sceglie di trasformare il suo bisogno in un simbolo di bisogno: “perciò vado da lui a cavallo del secchio. Cavalcando attaccato al manico, briglie semplicissime, [...]”. L'essersi trasformato in Cavaliere a cavallo del suo secchio, anziché corrispondere all'immagine più rappresentativa di un bisogno, rischia di essere fraintesa dal carbonaio e da sua moglie, perché evocante in loro un significato diverso da quello che il significante del simbolo voleva palesare. Al volo nel secchio dell'improvvisato Cavaliere, Kafka contrappone una bottega sotterranea “nella quale il venditore sta rannicchiato davanti al deschetto e scrive: per sfogare il caldo eccessivo tiene la porta aperta”. Carenza e abbondanza a confronto. Anzi, allo scontro. Chi vive al gelo di una stanza e chi è costretto a tenere la porta aperta per eccesso di calore. Ma il carbonaio viene comunque attraversato da un'intuizione: quella di sentire un possibile cliente aggirarsi fuori dalla bottega, seppure dentro a un secchio sorvolante la bottega all'altezza dei primi piani delle case. La moglie, al suo fianco, cerca di dissuaderlo, comunicandogli di non avere sentito alcunché. Il carbonaio insiste, sostenendo “Sì, moglie mia, c'è qualcuno: non posso ingannarmi fino a questo punto; deve essere un vecchio, vecchissimo cliente, se mi tocca così il cuore”. Il carbonaio, più che avvertire una presenza, ri-corda. Mentre la moglie continua a ripetere che la strada è deserta. A questo punto, il carbonaio tenta di uscire per andare incontro al vecchio cliente. La moglie lo prende per un braccio e lo trattiene in casa, ricordandogli la precarietà della sua salute. Decidendo di uscire lei. “Bene - dice la donna e sale sulla via. Naturalmente mi vede subito. 'Signora carbonaia' esclamo, i miei ossequi. 'Soltanto una palata di carbone; qui direttamente nel secchio; me lo porto a casa da me; una palata del peggiore. S'intende che lo pago per buono, ma non subito, non subito'. Quale squillo di campana sono le due parole 'non subito' e come si uniscono inebrianti alle campane della sera che suonano dal campanile vicino! 'Che cosa vuole dunque?' chiede il carbonaio. 'Niente' risponde la moglie, 'non c'è niente, non vedo nulla, non sento nulla; suonano le sei e noi chiudiamo. […] Ella non vede niente e non sente niente; tuttavia slega il grembiule e con esso cerca di cacciarmi via. Purtroppo ci riesce”. Dopo questa cacciata con il grembiule, il Cavaliere del secchio viene abbandonato al suo destino: “Così dicendo salgo nelle regioni delle Montagne di ghiaccio e mi sperdo per non più ritornare”.

Aveva ragione Calvino. Un racconto di Kafka - di neanche due pagine - contiene la più alta densità di mistero che la letteratura sia mai riuscita a esprimere. L'etimo di mistero è lo stesso di ‘muto’. Il mistero non si risolve a parole. Nelle parole. Quale mistero racchiudono il carbonaio e sua moglie? Cosa ci evocano le loro figure? Kafka era, ovviamente, pre-kafkiano. Quindi, viene prima dell'assurdo e del desolante che lui stesso ha contribuito a creare. Come il Cavaliere del secchio è un simbolo non colto e recepito dal carbonaio e dalla moglie, parimenti anch'essi sono simboli, rispettivamente, dell'ascolto e della razionalità. Il carbonaio, infatti, sente. Intuisce anche senza l'ausilio della vista. Percepisce qualcosa, un ronzio forse, in grado comunque di fargli avvertire una presenza, anche se non sufficiente per riconoscerla con certezza. Ogni volta che noi ci predisponiamo all'ascolto - di qualcosa di cui non abbiamo certezza di conoscere – s’innesca immediatamente la nostra razionalità, la capacità di discernere, la logica, il calcolo. E se l'ascolto è profondo - tocca sempre il cuore. Come quello del carbonaio, che a un certo punto si mette in cammino per sentire ancora meglio. Ma la razionalità è una forza contraria che spodesta l'ascolto, lo trattiene nella bottega sotterranea ed esce allo scoperto. La razionalità non contempla un ordine diverso dal suo, per cui un uomo in un secchio che vola all'altezza dei primi piani delle case viene semplicemente visto ma non guardato, in quanto appartenente a un regno diverso da quello del reale. La dittatura della Realtà sull'Invisibile. La moglie/razionalità scaccia con il grembiule quello che non può essere di certo un cavaliere nel secchio, perché la razionalità possiede soltanto la vista ma non la visione. Il carbonaio/ascolto, invece, era riuscito a sentire qualcosa, ad avvertire una presenza. L'ascolto riscalda, proprio come il carbone. Mentre la razionalità scaccia il cavaliere “nelle regioni delle Montagne di ghiaccio”, dalle quali non si può più ritornare.

Ecco allora ergersi forte l'esortazione calviniana di affacciarci al nuovo millennio a cavallo – ciascuno del proprio secchio - “senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi”.

Il secchio vuoto, meglio, il vuoto del secchio è simbolo del desiderio, della speranza, della fantasia, dell'ascolto, dell'immaginazione, dell'amore, del silenzio. Le sette meraviglie il cui splendore è dato proprio dall'essere ciascuna di loro una terra cava, in cui riversarvi Senso affinché germogli Vita.

Se saremo capaci di portarvi queste meraviglie, il terzo millennio sarà ancora il regno dell'umano.

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26 Aprile 2020   

Ho un'età in cui – ogni tanto (sempre più spesso, a dire il vero) – convoco i morti alla mia mensa affettiva. Non solo quelli privati, intimi, per averli frequentati in vita. Ma i molti conosciuti attraverso le loro opere. Avendo trascorso più della metà della vita a leggere, posso dire di avere frequentato e  fatto esperienza di una moltitudine molto rumorosa di poeti e scrittori, di pensatori e sciamani dell'espressione. Di traduttori dalla Vita al Segno. Dall'Invisibile alla Forma. In questi giorni privati di pubblico, cioè di popolo, popolo il mio privato con nostalgiche congetture. Se dalla mia teiera anziché fuoriuscire del ribollente Kukicha facesse capolino un pingue Genio, magari cugino di quello della lampada di Aladino, pronto a soddisfare soltanto qualche mio desiderio (non tutti, perché temerei di precipitare in un delirio di onnipotenza), gli chiederei senz'altro di convocare qualche altro genio come lui, che, attraverso le sue riflessioni o le immagini poetiche depositate tra le pagine sfogliate, continuasse a contribuire all'arricchimento della mia vita interiore, aiutandomi a leggere e a interpretare il presente - (come) sempre - più anomalo e imprevedibile. Tra i primi convocati senza dubbio Elias Canetti, lo scrittore e saggista bulgaro, premio Nobel per la letteratura nel 1981. L'intellettuale che ha dato del Tu all'intero secolo scorso, essendo nato nel 1905 e morto nel 1994. Quei due lustri, uno iniziale e uno finale, sono una specie di cornice temporale attorno al quadro più rappresentativo del secolo breve, di cui lui ha saputo cogliere l'intensità e la profondità, le contraddizioni e il dolore, le parti molli e quelle più aspre, come la guerra. In una parola, il senso profondo di un'intera epoca. Attraverso due antipodiche modalità espressive. Il saggio Massa e potere, al quale si dedicò per circa quarant'anni della sua vita. Un'opera corposa, un libro mondo, da un lato. Dall'altro, l'eccellenza dei suoi aforismi. Massime brevi, un genere letterario antico, di cui Canetti è stato un'eccellenza assoluta. Frammenti e miniature in cui è riuscito a comprimere universi. Neutrini poetici. Aphorismòs è stabilire dei confini. Nell'etimo primigenio è contenuta la parola “orizzonte”. Orizzonti di senso, quindi, gli aforismi canettiani. Ma dentro alla parola orizzonte è contenuto anche la radice orào: guardo. La capacità di osservare. Di coloro che sanno guardare avanti, sopra, attorno, dentro. Sanno tenere gli occhi addosso. Mantenere lo sguardo. Ma non per un senso di sfida. Al contrario. Di protezione. Gli aforismi di Canetti sono il frutto di quelle osservazioni, di quelle interrogazioni. Interrogare è una domanda elevata a potenza. Perché non è la domanda interiore, che rasenta i confini della preghiera; ma la domanda che interrompe, che costringe l'interlocutore a fermarsi e a tentare una risposta. Il secolo scorso ha visto predominare il punto esclamativo rispetto al punto interrogativo. Gli antichi non li conoscevano. Fino all'ottocento venivano confusi e inter-scambiati. Il punto esclamativo ha aperto la stagione delle dittature, dei proclami dai balconi. Graficamente ha la stessa forma di una spada. Se brandita male può fare molti danni. Il punto interrogativo è la forma rovesciata di un uomo che pensa. Chi pratica Yoga sa che stare a testa in giù significa ossigenare il cervello e fortificare tutto il corpo. Il punto interrogativo apre la strada alla riflessione, all'introspezione come all'estrospezione. Ogni aforisma canettiano è come se fosse preceduto e seguito da un punto interrogativo. Da parentesi di punti interrogativi.

“Dall'equilibrio fra sapere e ignoranza dipende quanto si è saggi. L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere. Per ogni risposta deve saltare fuori – lontano e apparentemente non in rapporto con essa – una domanda che prima dormiva appiattata. Chi ha molte risposte deve avere ancora più domande. Il saggio rimane bambino per tutta la vita, le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro. Il sapere è arma unicamente per i potenti, non c'è nulla che il saggio disprezzi più delle armi. Egli non si vergogna del suo desiderio di amare più persone di quante conosca; e non si separerà mai, per superbia, da tutti coloro di cui non sa nulla”.

L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere. Strepitoso. L'ignoranza è il vuoto prima della conoscenza. Il sapere prova a riempire questo vuoto. Canetti ci suggerisce di non comprimere quello spazio iniziale di vuoto, perché solo dalla condizione iniziale d’ignoranza si desidera incontrare il mondo. Continuare a secernere ignoranza. Diverso dal coltivarla, dall'impedire che la conoscenza occupi in parte quel vuoto.

“Oggi non sapere troppo è una questione di pulizia dello spirito. È passato il tempo dei pensatori che miravano a tutto. I loro nomi sono rimasti grandi, le loro soluzioni non sono più prese sul serio, perché non erano degli specialisti. Si incontrano ancora ogni tanto certe nature ambiziose, che vogliono almeno sapere tutto quanto si può sapere con sicurezza. Ma è davvero importante? L'importante non è proprio il contrario? L'incerto dovrebbe essere il vero regno del pensare. Nell'incerto lo spirito dovrebbe porre le sue domande; nell'incerto, fantasticare; disperare nell'incerto”. Così si esprimeva nel 1944 Canetti. Sono i pensieri della piena maturità, che per lui ha coinciso con la seconda guerra mondiale. Forse, per questa ragione, le sue riflessioni sulla guerra, e di conseguenza sulla libertà, sono tra le pagine più alte mai scritte intorno a questi temi.

“La parola libertà serve a esprimere una tensione importante, forse la più importante. L'uomo vuole sempre andare via, e se il luogo dove si vuole andare non ha nome, se è indefinito, senza confini, allora lo si chiama libertà”.

A questa straordinaria intuizione, seguono le declinazioni della libertà spaziale e temporale.

“L'espressione spaziale di questa tensione è il violento desiderio di valicare un confine, come se non ci fosse. La libertà nel volo si estende sino all'antico, mitico sentimento dell'ascesa verso il sole. La libertà nel tempo è il superamento della morte, e si è già soddisfatti anche soltanto quando si riesce a spostare la morte sempre più in là”.

Sino a risalire all'origine del senso stesso della libertà, al momento del big bang etimologico.

L'origine della libertà sta però nel respirare. Chiunque ha potuto respirare qualsiasi aria, e la libertà di respirare è l'unica che fino ad oggi non sia stata realmente distrutta”.

Come non attualizzare questo pensiero, formulato nel corso della più grande carneficina umana della Storia – la seconda guerra mondiale -. In questo tempo in cui l'umanità ha dovuto fermarsi per il rischio di non potere più respirare insieme, come se attraverso il respiro ci venisse perpetrato un assalto mortale, quale interrogazioni solleverebbe Canetti?

Sicuramente non ci esorterebbe alla preghiera.

“Quand'anche potessi credere, sarei ancora ben lungi dal poter pregare. Il pregare continuerebbe a sembrarmi il modo più sfacciato di seccare Dio, il peccato più nauseante di tutti, e dovrei intercalare ogni preghiera con lunghi periodi di espiazione”.

Molto probabilmente proporrebbe di istituire una nuova festività.

“Una festa annuale dovrebbe educare gli uomini a essere derubati. Bisognerebbe che gli iniziati di questa festa potessero allungare le mani su ogni cosa, su ogni oggetto prezioso, su ogni ricordo sacrosanto. Nulla dovrebbe essere mai restituito. Proibita severamente ogni misura di sicurezza prima dell'inizio della festa. Non sarebbe neppure permesso seguire gli ulteriori destini e le metamorfosi degli oggetti perduti”.

Oltre alla cura per questo sfrenato edonismo consumista, insisterebbe sull'importanza della lingua che gli uomini hanno a disposizione, mettendoci in guardia sulla sua vitale poliedricità.

“Le diverse lingue che si dovrebbero avere: una per la propria madre, e dopo non la si parla mai più; una che si legge soltanto, ma non si osa mai scrivere; una in cui si prega e di cui non si capisce una parola; una in cui si conta, che riguarda tutte le faccende di denaro; una in cui si scrive (ma non lettere); una in cui si viaggia, e in questa si possono anche scrivere lettere”.

A riprova che la lingua delle madri è un'Itaca alla quale non si deve mai più tornare. E solo a chi si mette in viaggio, e quindi ridefinisce nuove geometrie relazionali, appartiene la facoltà di scrivere lettere indirizzate a qualcuno. Chi scrive dall'eremo di una solitudine può rivolgersi solo al mondo intero. A tratti, i pensieri si avvicinano alla poesia, essendo consapevole di non essere un poeta “ma molte persone che non conosco tacciono in me. Le loro eruzioni fanno di me qualche volta un poeta”. Come nell'aforisma che segue.

“Gli uomini non hanno mai saputo così poco di sé quanto in questa era 'della psicologia'. Non possono star fermi. Corrono via dalle loro stesse metamorfosi. Non rimangono ad assistervi, se le anticipano, preferiscono essere tutto, tranne quello che potrebbero. Viaggiano in automobile attraverso i paesaggi della loro anima, e siccome si fermano solo ai distributori di benzina, credono che là non ci sia altro. I loro ingegneri non costruiscono altro: ciò che mangiano puzza di benzina. Sognano in pozzanghere nere”.

Avrebbe ironicamente proposto una soluzione per le guerre - a partire dalle armi.

“L'uomo è innamorato delle sue armi. Come opporvisi? - Le armi dovrebbero essere fatte in modo che di tanto in tanto e inaspettatamente si rivolgessero contro chi le adopera. Lo spavento che incutono è troppo unilaterale. Non basta che il nemico agisca con i medesimi mezzi. Bisognerebbe che l'arma stessa possedesse una vita capricciosa e imprevedibile, e che gli uomini dovessero avere paura, più che del nemico, dell'oggetto pericoloso che tengono in pugno”.

Il secolo scorso abbraccia una nuova idea di verità. Crolla la Verità. Pullulano le verità. Canetti tenta una sintesi geniale.

“Odio l'eterna disponibilità alla verità, la verità per abitudine, la verità per dovere. La verità dev'essere un temporale: quando ha purificato l'aria, se ne vada. La verità deve cadere come un fulmine, altrimenti non ha alcuna efficacia. Chi la conosce deve avere paura. La verità non può divenire mai il cane dell'uomo, guai a chi la chiama con un fischio. Non la si tenga al guinzaglio, non la si porti in bocca. Non la si foraggi, non la si misuri; la si lasci crescere nella terribile pace. Dio stesso si è preso troppe confidenze con la verità e per questo è rimasto soffocato”.

Ci avrebbe messo in guardia dal dolore, sulla falsariga del mestiere pavesiano di vivere.

“Non fidarsi del dolore: si tratta sempre di un dolore proprio”.

E ci avrebbe indicato qualche rimedio per resistere al nostro attrito con il mondo.

“La musica è la migliore consolazione già per il fatto che non crea nuove parole. Anche quando accompagna delle parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole. Ma il suo stato più puro è quando risuona da sola. Le si crede senza riserve, poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti. Il suo fluire è più libero di qualsiasi altra cosa che sembri umanamente possibile, e questa libertà redime. Quanto più fittamente la terra si popola, e quanto più meccanico diventa il modo di vivere, tanto più indispensabile deve diventare la musica. Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura. La musica è la vera storia vivente dell'umanità, di cui altrimenti possediamo solo parti morte. Non c'è bisogno di attingervi, poiché esiste già da sempre in noi, e basta semplicemente ascoltare, perché altrimenti si studia invano”.

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25 Aprile 2020       Spari e dispari

 

Osvaldo e Franco - Nellino e Fiorino, quattro amici (oltreché un’assonanza e una rima baciata - ahimè non dalla fortuna) che si sono persi di vista e di vita un mattino di febbraio dell’anno millenovecentoquarantatre, perché tre di loro non sono sopravvissuti al fosforo dei rastrellamenti, che sono stati sanguinosi attraversamenti delle campagne piemontesi alla caccia di quegli illusi che pensavano di opporsi al regime fascista, cadendo in una vera e propria lista di proscrizione, in cui l’azione da compiersi era la resa addomesticata o il linciaggio. Così, ragazzi di vent’anni sono stati costretti all’eremitaggio dentro nascondigli improvvisati, tra prati e fossati nebbiosi, tra aliti vinosi sotto mucchi di letame nelle stalle, in un’all’erta perenne a scrutare un orizzonte grigio in cui non sorge e non tramonta mai il sole, ma popolato di uomini armati di pistole e non di parole, di fucili e di fanatismo, che praticavano l’estremismo razziale come professione di fede, braccio e piede armato di un dittatore folle osannato da folle arate come zolle da discorsi reboanti ma spregevoli e inconsistenti. Così, sono stati giovani di vent’anni anagrafici ma con volti come geroglifici da decifrare, perché la paura - a lungo andare - mina persino la forza di amare e di essere amati, destinati a una resistenza non solo fisica ma soprattutto morale, dentro il carnevale tragico dell’assurda carneficina che è la guerra. Così quella notte Osvaldo si rinserra nel suo solaio e con penna e calamaio decide di scrivere a uno zio lontano, uscito anni prima dal pantano italiano per recarsi in America a incontrare fortuna. Osvaldo sceglie la luna, quella notte, che rocambola silente sopra i tetti, e non sente più suo l’invito di Nellino Franco e Fiorino di scappare da casa per andarsi a mettere al sicuro dietro al muro di un casottino di campagna, all’ombra dei filari di pioppi, per sfuggire agli scoppi e agli schioppi dei repubblichini alla ricerca di bersagli da colpire, per inibire qualsiasi dissenso e spianare la strada al potere assoluto. Osvaldo più che un uomo si sentiva un anacoluto, un privo di seguito, un imbuto, nel quale il mondo riversava il suo rifiuto solenne a essere felice. Così i tre amici hanno ritenuto sciocca e debole la scelta di Osvaldo di non mettersi al riparo con loro, e in coro unanime l’hanno ritenuto più imprudente che traditore, perché il calore e la forza dell’amicizia creano una scorza impenetrabile anche all’ingiustizia somma della violenza. Osvaldo ha scelto - quella notte - una doppia resistenza, una latitanza di disonore minimo al cospetto della muta amicale che scendeva di fretta le scale per precipitarsi nel loro acclamato rifugio; e senza alcun indugio e cedevolezza, il rastrellamento quella notte è partito prima come una brezza leggera e poi si è trasformato in un tropicale uragano. Così non è servito a Nellino Franco e Fiorino a tenersi stretti e per mano dietro alla catasta di legna ammonticchiata. La spietata retata li ha visti catturare senza alcuno sparo, semplicemente è bastato mirare al cuore di un’esistenza indebolita da questa incessante transumanza di eretici e fustigatori della vita. Così li hanno ammanettati con cinghie e catene e li hanno spinti sulla salita di una collina morenica che separa il canavese dal biellese, ammonendoli sulle conseguenze pericolose delle mancate rese alla politica del dittatore scortese. Così, una mattina di febbraio - in sordina - si muore tra le colline cosparse di chiese benedicenti ma senza sepolture. Perché le sciagure più feroci si compiono lontano da occhi indiscreti. E nemmeno i preti avevano più il coraggio di pregare per ottenere pietà. All’età di vent’anni, Nellino Franco e Fiorino – alle prime luci del mattino - sono stati invitati a scavarsi la fossa da soli e con molta lentezza sono stati costretti a voltarsi come girasoli infreddoliti verso gli occhi di quella masnada di banditi e di assassini, fatti mettere in ginocchio, penitenti come bambini imploranti perdoni che non sarebbero mai giunti, perché era stato decretato che defunti dovevano essere trovati i corpi, privati persino degli occhi come ultimo sfregio, come massimo sacrilegio a corpi innocenti, con l’unica colpa di essere nati in anni perdenti il senso dello stare insieme e la misura. L’abiura di Osvaldo a un’esistenza improntata alla fuga perenne l’aveva lasciato indenne da quella barbara carneficina ma non dalla macabra vetrina del loro ritrovamento. Osvaldo si era precipitato con il tormento dell’unico sopravvissuto, che di certo non avrebbe voluto morire ma, se solo l’avesse saputo prima, li avrebbe convinti anche con la forza a restare dentro all’abitazione, perché - se il plotone di esecuzione deve comunque arrivare - è pur sempre meno doloroso morire nel mare delle cose - tra le persone care - piuttosto che stramazzare al suolo tra un nugolo di vermi, incluso quelli voraci che si nutriranno di noi - dopo – inermi nel terreno. Osvaldo si sentiva come disteso sul binario con un treno sbuffante in arrivo. Si sentiva ancora vivo e allo stesso tempo già morto, un risorto senza alcun paradiso, senza uno straccio d’inferno, dove proseguire l’inverno gelido della sua avventura terrena. Osvaldo era stato sulla schiena del tetto a scrivere una lettera a uno zio lontano e questo sentimento di nostalgia gli aveva dato la mano più grossa, aveva scampato la fossa comune in cui sono finiti i suoi amici che lui sentiva di avere in parte tradito.

La vita prosegue e continua a proporti inviti a restare, a lottare per essere non solo uomini in vita ma giocatori di una partita onesta ed equilibrata con il destino, senza sentirsi bersagli immobili nel mirino della violenza e dell’ingiustizia. La memoria è la sconfitta della pigrizia a pensare, il presupposto per continuare a tramandare le esperienze che hanno segnato la vita di un’intera comunità, come quella di un piccolo paese canavesano, che è uscito dal pantano di quella guerra in-civile con tre vittime innocenti di vent’anni, che pur avendo da poco perso i denti da latte avevano avuto in sorte un destino da blatte, costrette a mimetizzarsi nei boschi per colpa delle cateratte delle ignoranze dei sopraffattori. Sono morti da signori, ma non nel senso di ricchi e padroni, sono morti con l’energia estrema dei loro ormoni pulsanti che li hanno spinti non solo a non abiurare la loro fede antimilitare ma a sputare il rifiuto sui loro aguzzini.

Noi bambini di paese di allora siamo cresciuti (quasi) tutti con questo esempio forte. Per questo lo scempio della violenza non ci appartiene. Per questo ogni resistenza è un bene, non da auspicare ma da preservare nella memoria, la storia madre di chi non ha mai impugnato armi e non per questo ha ceduto, la storia dei grandi spiriti dignitosi nel proclamare netto – e non per viltade - il gran rifiuto.

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21 Aprile 2020

Ogni giorno vado a passeggio per le stanze di casa. Ho pensato di vivere lo spazio domestico come fosse una città. E lo è diventata. Si entra dall'arco costituito dalla porta d’ingresso. Non è l’arco di trionfo. È l'arco di fallimento. L'ho imparato da Samuel Beckett. Tentare. Fallire. Tentare ancora. Fallire ancora. Ma fallire meglio. Dopo molti anni (e molti fallimenti) ho capito cosa ci stava suggerendo uno dei più grandi drammaturghi del '900. Il verbo fallire ha una storia meravigliosa. Nella sua infanzia aveva un significato diverso rispetto a quando è diventato adulto. Semplicemente quello di far sdrucciolare. Abbattere. Fare roteare e poi buttare a terra. Il fallimento è quindi eliminare ogni piedistallo. Portare tutto a livello del suolo. Azzerare le altezze. Le differenze. Se il trionfo è una danza di tre passi, solenne e strepitante, il fallimento è roteare come dervisci in preghiera per poi crollare al suolo - esausti. Il fallimento è la prova di essere stati, prima, vortici di energia che, poi, – solo l'usura del tempo ha fatto esaurire. Ecco il magistero beckettiano. 'Fallire meglio' è non desistere dal tentativo di entrare nel vortice, senza paura di esaurire energia. È svuotarsi completamente di ogni tensione per aver tentato di penetrare il mistero della vita. È il trionfo - la vera sconfitta. Perché è una danza contraria a quella del derviscio che tenta l'unione mistica con il divino. È una danza solenne e dove c'è solennità c'è sempre interezza, solidità, pienezza, che non anela al silenzioso vuoto divino ma che si basta da sé. Non a caso l'anagramma di trionfo è tronfio: superbia, fasto. E contiene la parola tonfo: un suono cupo, ottuso. Insensibile al mistero del mondo. Per cui, nella mia casa/città si entra da un arco di  fallimento, a rammemorare il monito beckettiano che andrebbe scolpito sopra ogni (v)arco. Varcata la soglia, si presenta subito una piazza. Molto grande. Sulla quale si affacciano abitazioni sopravvissute alla cementificazione urbana. Classiche. È il centro storico. Dove ci sono, appunto, i libri antichi. Ed esiste tutto un piano regolatore per la loro lettura. Trattandosi di prime edizioni, o di edizioni molto delicate, visto il tempo trascorso dalla loro originaria stampa e rilegatura, vi si accede con molta discrezione. Un misto di riverenza e deferenza. Ovviamente nel centro storico non circolano veicoli. Nemmeno biciclette. È una stanza tutta pedonale. In cui si rallentano i passi. Fino allo stallo. Per soffermarsi a osservare le meraviglie. Per fermarsi a guardare i cortili interni che si aprono in ogni libro/abitazione. A fianco della piazza c'è un minuscolo angolo dedicato alla ristorazione. Doppio nutrimento, quindi, fornisce l'avventurarsi da queste parti. Dalla piazza si dirama il cardo cittadino, che taglia la città da nord (mare) a sud (entroterra collinare). Usciti quindi dalla piazza centrale, s’imbocca il cardo e subito sulla destra s’incontrano i bagni pubblici. Tutte le pareti sono ricoperte da libri cosmetici. Sono libri profumati. Che detergono. Libri che hanno la consistenza di sali da bagno. In cui immergersi e stare a mollo per ore. Doppio nutrimento, quindi, fornisce l'avventurarsi da queste parti. Proseguendo di poco lungo il cardo - si giunge alla cattedrale. Al tempio. Pieno di libri dal pavimento al soffitto. Tempio che - contrariamente a quello religioso – deve essere assolutamente profanato. Nel senso di de-sacralizzato. Perché non vuole affatto essere un luogo separato. Al contrario. Non esistono recinzioni. Ma tuttalpiù recensioni. È il luogo in cui si passano in rassegna i libri che fanno parte di quella massa muraria, parietale. Luogo per apprezzare. Attraverso la calma, la concentrazione. Il silenzio. I libri sono i migliori isolanti sonori di cui disporre in una casa/città. Non esiste un censimento per questa moltitudine. Un'anagrafe residenziale. Regna una libera disposizione a seconda del loro uso. Vi è una migrazione continua tra uno scaffale e l'altro. E sono sicuro che durante la notte - questa danza degli scambi - continui anche senza di me. Non è un luogo di adunanza. Ma di convocazione. A ogni transito lungo il cardo sento uscire dalla cattedrale uno spiffero tiepido, come la brezza di mare subito dopo il crepuscolo di una giornata molto calda. È il vento della Storia, delle storie, del mondo che ha cambiato modo di stare al mondo. Un soffio che m’irretisce e invita a entrare. Nella dimensione della preghiera. Ma non quella che si leva dalla bocca e dal corpo degli oranti. L’altra. La preghiera – prece dei precari. Solo chi avverte una profonda fragilità si abbandona alla precarietà. È precario colui che è consapevole di durare per il solo tempo della prece. La lettura è la più alta forma di precarietà dell'uomo. L'uomo che sceglie la dimensione della prece. Che altro non è che una domanda, un’ininterrotta domanda di senso. Chi osa domandare più volte entra nella dimensione del chiedere. E chiedere ha la stessa etimologia di desiderare. Un lettore è – prima di tutto - un desiderante di senso. Doppio nutrimento, quindi, fornisce l'avventurarsi da queste parti. Poi si giunge nella prima periferia, e si abbandona il cardo per entrare nello spazio luminoso che precede la natura, che quasi sempre circonda l'agglomerato urbano. Come ogni periferia si addensa una forte confluenza multietnica. Qui s’incontrano libri che provengono da luoghi lontani. Chi è giunto per mare, chi per terra. Per aria. Nessuno straniero e nessun clandestino. Nella periferia della mia casa/città ci sono gli stessi colori e gli stessi diritti di chi abita nella piazza centrale. Non esistono “i privilegiati”. Le case/libri sono tutte ospitali e soprattutto non hanno porte o finestre blindate. Non esistono manco serrature, lucchetti, scale o ascensori. Si accede da un'unica porta aperta a tutti. Non esistono malavita, furti, scippi, violenza, spaccio. L'unica merce spacciata è la cultura. Luogo di coltivazione. Come mi è stato insegnato da un verso straordinario di una poesia di Danilo Dolci. “La gente non è suolo ma semente”. Nel senso che gli uomini devono ambire al ruolo di seme e non di suolo - sul quale far germogliare fiori e frutti altrui. Così noi dobbiamo stare dentro ai libri. Come semi. Dentro al suolo della scrittura. Sarà la nostra lettura a fecondare un libro e non il contrario. Noi che veniamo compresi dal libro attraverso il germe della lettura, fino a trasformare - vita e immaginazione - in un'unica pianta da frutti. La vita interiore dell'uomo è una pianta che cresce e fiorisce sotto la pioggia monsonica della nostra sensibilità. I fiori sono la nostra espressione. Doppio nutrimento, quindi, fornisce l'avventurarsi anche da queste parti. Poi, c'è l'ultima stanza. Il quartiere residenziale, tranquillo, del riposo. Anche questo quartiere è pieno di libri. Sono quelli che conciliano piuttosto che dividere. Che hanno la capacità di addentrarsi nei territori dell'oblio, senza diventarne anche loro preda. Sono le letture notturne. Che raccontano storie in discesa. Pensieri soffici. La lettura oppiacea. Non quella che volge al sonno ma che estrae il succo dalla lettura, ne respira l'essenza. Succo e sonno. Dove sonno, oltre a essere il completo assopimento dei sensi è anche il luogo risvegliatore del sogno. Il sogno è il sonno che si sveglia e comincia a correre. Doppio – e ultimo - nutrimento, quindi, fornisce l'avventurarsi da queste parti.

Casa. Città. Doppio, appunto. Come la doppia visione che racconta Marco Polo a Kublai Kan, descrivendo Despina, una delle tante “città invisibili” che Italo Calvino ha incontrato in una delle sue predonesche scorribande nel territorio della fantasia.

 

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi viene dal mare.

Il cammelliere che vede spuntare all'orizzonte dell'altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle merci d'oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian terreno, ognuna con una donna che si pettina. 

Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d'una gobba di cammello, d'una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d'acqua dolce all'ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le braccia un po' nel velo e un po' fuori dal velo.

Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti. 

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17 Aprile 2020  La trombetta di carta

 

Era figlio di una lavandaia e di un intagliatore di pietre alcolizzato, Adolf Wolfli, nato il 29 febbraio 1864. Visse un'infanzia non allegra a Berna, adolescendo melancolico occupato nel lavoro dei campi. S’innamora di una ragazza, alla quale viene impedito di frequentarlo. Turbato dagli eventi, si dedica a estenuanti pratiche masturbatorie. Poi un piccolo furto con conseguente fulminea reclusione. Intraprende il nuovo mestiere di muratore e contemporaneamente una nuova relazione con una donna di età doppia alla sua. Interrotta la relazione, si dedica con forza a una vita sregolata e di eccessi, in cui si procura il tifo. Guarito, tenta un primo approccio in un parco con una ragazzina quattordicenne, impedito solo dal sopraggiungere di tre uomini. Ma persiste nell'intento, e questa volta l'età della vittima scende a cinque anni. Pare che nemmeno questa volta riesca a consumare il reato. Viene condannato a due anni di carcere. Uscito dal carcere svolge i più svariati lavori. Quando l'età dell'ennesima vittima scende sotto i tre anni, viene consegnato nuovamente alla Polizia, che decide di sottoporlo a indagini sulla sua integrità mentale. Dall'8 ottobre 1895 viene internato nell'ospedale psichiatrico d Waldau e vi rimane sino alla morte, avvenuta trentacinque anni dopo, nel 1930. Isolato al suo interno, per atti di violenza compiuti sugli altri e su se stesso, comincia una febbrile e frenetica e incessante attività artistica: prose, poesie, composizioni musicali, disegni. Lascia in eredità più di un centinaio di dipinti, spartiti musicali decorati,  venticinquemila pagine di un diario ininterrotto.

“Arte e follia in Adolf Wolfli”, è un libro denso di riflessioni e di spunti di Walter Morgenthaler, lo psichiatria svizzero che lo ha curato per tutti quegli anni di internamento, e ne ha seguito il flusso ininterrotto di creatività. Incapace di intendere e di volere per il mondo, capace di stendere all'infinito colore e inchiostro sulla carta.

Sembra un atto simbolico l'insorgere della sua malattia all'alba del '900: come se l'ultimo secolo del secondo millennio si fosse conficcato nel suo corpo, facendone fuoriuscire l'adamantina putredine delle viscere. L'inconscio che fa l'ingresso trionfale nella storia dell'uomo. La tragedia della complessità. Perché diventa complesso separare il pedofilo dall'artista. Le macine del mulino della Storia quanta farina hanno fatto delle vite di semplici pervertiti, condannati a patiboli, ai roghi, alle catene, o, peggio ancora, all'indifferenza da parte del consorzio sociale, prima che sopraggiungesse il magma dell'interiorità, a lastricare le strade percorse dagli umani. La clandestinità dell'essere stranieri ed estranei a sé stessi. L'interesse per quelle evaporazioni notturne del corpo: i sogni e gli incubi. Narrazioni fantastiche ancorate nel midollo spinale dei vissuti. Evanescenti aquiloni che si trasformano in termometri in grado di misurare la temperatura del concetto storico di normalità, la nuova frontiera per determinare il discrimine tra genio e follia. Dove per genio si intende la normalità elevata alla sua estrema potenza e per follia la fuoriuscita dal grado minimo di normalità richiesta per meritare l'epiteto di cittadino del mondo.

È  impressionante la doppia personalità di Wolfli: da un lato sacrilegamente eccitato dal candore di piccoli corpi di bambina, all'interno delle geometrie consortili dell'umano, dall'altro accecato dal furore creativo e compositivo, nel territorio apolide della follia. La perfetta esemplificazione del mostro: il fenomeno contro natura. Nell'esistenza di Wolfli l'intero destino della modernità: l'incessante bisogno di produrre. Pena la discesa negli inferi della perversione per essere morbosamente attratti dall'inviolabilità della purezza. Cogliamo tutta la sua doppiezza all'interno della sua sterminata mole di scritti. Eccone un passo esemplare:

“Oh, Potessi io ancora una volta rivedere Tutto: Sì, direttamente Tutto ciò che Allora ho visto e vissuto, sopportato e provato al tempo dei miei 6 anni circa, dal mio anno di nascita 1864, fino all'anno 1870, Sopra l'intero globo terrestre; Sì, anche per una parte considerevolissima dell'intero inesplorabile universo, a eccezione delle innumerevoli in massima parte gigantesche disgrazie, sotto la propriissima meravigliosa guida di Dio padre onnipotente. Oh tempo di gioventù, oh tempo allegro”.

La memoria e il ricordo che riescono a fare capolino anche quando la ragione è incrinata da un morbo. Il vagheggiamento di un'età dell'oro. L'allegria che cresce anche tra gigantesche disgrazie. Con Wolfli si scardina l'idea virtuosa e romantica dell'artista, dove il tormento è il volano propulsore della poeticità. In lui il tormento scatena la violenza sul prossimo indifeso. La bestia. Ad eccezione che la pulsione venga sublimata con una matita e un pezzo di carta. Per cui la bestia si inletarga per lasciare emergere il fantasma luciferino dell'artista. L'angelo che non appena smette di impugnare la matita, rampone uncinato conficcato nel cielo dell'universo creativo, precipita nell'ade violento e maleodorante della depravazione. L'uomo che scambiava l'arte per lavoro, e la vita per un gioco perverso.

Ancora una volta le biografie in cui fa capolino l'arte diventano uno strumento di decifrazione della propria sensibilità. Quando i colori di un dipinto riescono a bucare il bianco e nero delle ossessioni e dei morbi costituiscono una doppia vittoria dell'umanità, che tenta la laica redenzione di ridimensionare il dolore sino a renderlo sopportabile. Di fronte all'arte, da qualunque fonte essa sia sgorgata, l'umanità arretra di un passo nel giudizio, e prima si inoltra nella decifrazione dei geroglifici dei segni tracciati dalle creatività realizzate dentro la materia.

In questi giorni sospesi su una temporalità azzerata e spazi – paraventi sull’ignoto - trasformati in gallerie talpose per proteggerci dall’invisibile, penso alla nostra bestia angelica che componeva musica soffiando in un tubo composto di carta spessa e arrotolata. E me lo immagino così come ritratto in una foto scattata nel 1920, in cui si trova in piedi al centro della stanza, davanti al tavolo su cui sono sparse le sue ultime farneticazioni pittoriche. Indossa un paio di pantaloni che avrebbe iconicamente ripreso il ragionier Fantozzi: pantaloni “ascellari”, sorretti da due bretellone di stoffa cucita direttamente sul pantalone; ha una camicia bianca, a mezze maniche, in cui si possono scorgere della braccia muscolosissime e avvolte da vene come se fossero un edera di sangue sulla facciata della casa di carne. La mano sinistra è stretta intorno alla metà della trombetta, mentre la destra è appoggiata direttamente sulle labbra. Un solco nel viso separa le labbra dal naso regolare, piantato in mezzo a due occhi irregolari, traboccanti entrambi vita. La fronte ampia e spaziosa ornata da un'aureola di capelli bianchi cortissimi è il monumento vivente che inaugura il '900. La sfera del sacro, dove l'oro e il fango, la luce e la tenebra, la genesi e l'apocalisse, la vita e la morte si sono depositate, dopo che la galassia di Dio ha smesso di affrescare i cieli dell'universo. L'uomo è per la prima volta libero di poter morire veramente una volta per tutte, perché la morte è entrata a far parte della cupola del monumento.

Se l'arte fino ai primi del secolo scorso aveva descritta e rappresentata la morte, ora ne ha fatta diretta conoscenza. E infatti, Wolfli scrive: “Tutti gli uomini devono morire. E forse anch'io”. E nell’attesa che il dubbio amletico venisse risolto, per tutti i trentacinque anni di internamento, ha continuato incessantemente a esprimersi. Lo spazio claustrale in cui si è trovata relegato gli ha innescato morbiferi aneliti a viaggiare, di incontrare città giganti da lui scoperte o, addirittura, fondate. L’impasto di fantasia e follia, la demoniaca angelicità che pervadeva ogni fibra del suo corpo, hanno trovato approdo su migliaia di pagine accatastate ovunque. E noi possiamo attraversarle con qualcosa in più di una semplice lettura: come marinai che non temono il naufragio ma che riescono a godersi la perturbante bellezza di una tempesta.

 

“E ora: E ora: Subito insceniamo il Nostro Viaggio, sempre cacciando e studiando la natura assiduamente, da occidente a oriente per 3plice 4-distesa, attraversando la parte meridionale del cielo, parte attraverso villaggi, mercati, luoghi rispettabili ed elegantissimi, alcuni più piccoli e alcuni più grandi, sì, in parti per città grandi e giganti potentissime, in parte per elegantissime e maestose culture, flore e vegetazioni, ma in parte anche per gigantesche brughiere, steppe, paludi, pantani, praterie e foreste vergini, sì, più spesso anche accanto a un lago o mare più piccolo, più grande e perfino gigantesco che più spesso si estende magari per centinaia di ore, pareti di roccia ora verticali ora a strapiombo alte da 100 a più di 500 ore, o anche lungo isole montuose o zone collinose in certi punti più basse, dirigendoci alla fine dopo molti triboli, strapazzi, pericoli e infortuni direttamente al Mar del Cielo del Sud, ei di lì sempre a est alla fine a nord, lungo il Mar del Cielo dell’Est e Mar del Cielo del Nord, di nuovo a ovest direttamente, in luoghi alti oltre 350 ore lunghi 25.000.000 e in certe parti larghi più di 900.000, vicino in massima parte a pareti rocciose, foreste vergini, malghe alpine, ghiacciai, tombe, valli e precipizi, città; città grandi e giganti, culture, flora e regni vegettali e il ghiacciaio-gigante-della-stella-celeste-di-Dio-Padre, nel quale ultimo è contenuto il più grande ristorante gigante dell’intero universo …”

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16 Aprile 2020        In memoria di un altro cileno

 

Oggi è morto Luis Sepulveda. Sosteneva Sepulveda che “le biografie degli uomini coerenti sono brevi”. Era nato in Cile settant’anni fa. Un nonno e uno zio anarchici l’hanno fatto innamorare della letteratura a tal punto da apprendervi il senso profondo della vita. Lottare per la libertà di tutti i popoli e di tutte le persone. Per questa ragione fu incarcerato e torturato. Ne uscì ancora più forte e rinvigorito, continuando la lotta con uno strumento diverso. La scrittura. Quando era giovane - ha scritto di un vecchio che leggeva romanzi d’amore. Da vecchio - favole. Certi scrittori entrano nelle nostre vite con qualcosa di più semplice delle loro parole. Con il cuore. E così si trasformano in amici lontani. Lui, per me, tra questi. Sosteneva Sepulveda che “i veri amici condividono il meglio che hanno”. Ed è stato coerente, con questo autentico pensiero. Per questo, la sua biografia può finire qui.

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15 Aprile 2020

 

Ricordo di una memorabile caduta dalla bicicletta. Avevo all'incirca cinque anni e lei era una graziosa bicicletta gialla, da cross, sulla quale sfrecciavo nella piazza antistante alla casa dove sono nato. Mi piaceva sfidare la geometria degli spigoli, rasentare i muri a pedalata piena, spingermi sempre ai limiti dell'energia da me prodotta - a ridosso delle cose del mondo. Così mi sentivo un po' meno criceto che gira nella ruota. Sperimentavo la prima forma di libertà. Solo che l'ebbrezza e l'entusiasmo provati ogni volta che inforcavo la bici mi rendevano più vulnerabile, perché una parte di me si lasciava irretire dallo stupore e dalla meraviglia di quei movimenti che mi consentivano di varcare le soglie dell'infinito. Non è stata una siepe per me a farmi illanguidire di fronte all'immenso, all'incommensurabile. È stata una piccola bicicletta utilizzata come un'astronave che non percorreva piazze e minuscole vie di paese ma attraversava caleidoscopiche galassie. Mi lasciava sospeso in un tempo che sfuggiva alla monotonia delle lancette e mi proiettava in uno spazio che non era delimitato da confini. Fluttuavo. Flutto che fluiva. Ancora una volta: scorrere, traboccare. Scorrevo sopra quella superficie asfaltata nella più totale superfluità dei movimenti. Un giorno, vagando tra galassie sconosciute, ho incontrato un buco nero. Per la prima volta, nel mio universo di traiettorie folli come stelle filanti soffiate a Carnevale, impattavo contro qualcosa d’imprevisto, di solido. Roccioso. Che produceva come effetto collaterale la mia caduta con la bicicletta. Quest'ostacolo improvviso, dovuto senza dubbio alla mia scarsa attenzione per coagulo di stupore negli occhi, si chiamava Ghita. Margherita. La donna più selvaggia del paese in cui sono nato. Stava lì, piantata in mezzo alla strada, china a raccogliere qualcosa. Ghita è il diminutivo  di Margherita. Lei aveva due fratelli – Nandu e Giuanin. Fernando e Giovanni, da cui, appunto, Giovannino. Erano figli di Alberto e di Giovanna. Bért, in piemontese, e Giuana, per tutti Uana. Bella la descrizione di mia madre della Uana: “Una donna facile, che andava con tutti, e per questa ragione il marito le urlava: 'Uana, Uana, cun as cul' (Giovanna, Giovanna, con questo culo)”.

Era una famiglia di contadini costretta a fare altri mestieri per campare. L'episodio più famoso della Ghita, tramandato dall'oralità attenta e altrettanto pettegola dei paesani, diventato una leggenda in paese, è questo: il giorno in cui sua madre – la Uana, stava agonizzando in casa, la Ghita era a spasso sulla piazza del paese con un misto di riso, ghigno, ringhio e sorriso e andava dicendo a tutti a gran voce: “La Uana ai tira adés”. La Giovanna sta tirando le cuoia adesso. Sta morendo. Tirare le cuoia, dove cuoia è il plurale femminile di cuoio. Pelle. Pelle conciata di animali. Quindi, estensivamente, la pelle umana conciata dalla morte. Che la tira. La stende. La irrigidisce come il resto del corpo. La Ghita – seppur illetterata - si è servita di un'ellissi poetica. A riprova che le figure retoriche sono degli archetipi inscritti nelle nostre cellule.  “Ai tira adés”. Le tira adesso. Senza dire cuoia. Senza richiamare l'espressione nella sua interezza. Omettendo il plurale femminile. Forse perché quel plurale femminile – di madre e di figlia – non è mai riuscito a viverlo. Forse perché era ancora risentita dalla leggerezza materna, di quell'andare a letto con tutti. Forse amava edipicamente il padre e ne soffriva per lui, insieme a lui. Ma in ogni caso, tralasciando queste tardive quanto pettegole supposizioni, la Ghita dicendo - “la Uana ai tira adés” - esorcizzava la morte. Riconosceva la morte come un evento naturale, in cui nulla sovrainvestire. L'esperienza contadina insegna che la morte è al centro del quotidiano. Si caccia, si pesca, si semina, si muore. Nell'uccisione degli animali non c'è crudeltà ma procacciamento di cibo per alimentare la vita. Per la Ghita, gli uomini erano soggetti alla stessa legge dell'indifferenza. Gli animali non hanno cimiteri: sono soggetti solo al ciclo della vita e della morte.

In questo racconto, narratomi un mucchio di volte da mia madre, coglievo un aspetto pedagogico; capivo che mi veniva impartita una lezione. Avvertivo, in quelle parole, cadere lo stigma della disapprovazione nei confronti di una figlia che non solo non si trovava al capezzale della madre morente per accudirla, ma si aggirava per la piazza del paese, con  un misto di riso, ghigno, ringhio e sorriso, a testimoniare se non il disprezzo quantomeno l'indifferenza per la morte della propria madre. Quest'interpretazione - arbitraria e senza riscontro sui sentimenti della Ghita – ha condizionato fin da piccolo il mio immaginario intorno a quella donna, per me a metà strada tra l'umano e il mostro. Non solo per i suoi tratti somatici, ma per questa sua energia pulsante nella sua voce. Non erano parole, ma singhiozzi sonori, fuochi d'artificio, tuoni verbali. L'acustica prevaleva di gran lunga sui contenuti. Per me era un alito ctonio che saliva dalle viscere della Terra e penetrava nei pori della pelle della Ghita che ne rimaneva intrisa fino a quando se ne liberava, eruttando una colata lavica di suoni impastati a sillabe. Ma la cosa che ancora oggi mi è rimasta impressa nella memoria sono i suoi occhi. Voragini. Una palude di bianco e di melmosa oscurità, per nulla in sintonia con la sciatteria dei vestiti; e la sua andatura sbilenca; la ruvidezza della pelle dovuta all'assenza di carezze, capaci di levigare anche le pietre. Gli occhi della Ghita erano un'enclave all'interno del suo corpo, dentro ai quali vi leggevo una sorta di sovraeccitazione perpetua, come se fossero reduci da milioni di orgasmi invissuti, solo desiderati. Occhi che portavano il riflesso della supplica inesaudita e della bestemmia andata a segno. Occhi sul crinale tra una follia scampata e una normalità esaurita. Non c'era nulla di femminile che io potessi scorgere in lei, a eccezione dei capelli grigi, unti dagli infrequenti lavaggi, ma lunghi e tenuti raccolti, forse per un pudore antico legato allo scioglimento dei capelli solo all'interno dell'intimità talamica. Ma nella mia famiglia aleggiava un'altra leggenda intorno alla Ghita. Che riguardava mia zia Elsa. Una storia piccola e meschina di paese che ai miei occhi risultava sfavillante e titanica. Un titanismo tutto femminile. Due gigantesse a confronto. Allo scontro. Mia zia Elsa e la Ghita.

Narra la leggenda che Gianotti Santino, Maresciallo dei Carabinieri in pensione, perdesse la sua prima moglie, fatta seppellire nella tomba di famiglia, in fondo al cimitero del paese. Santino era solito andare a pregare sulla tomba della moglie scomparsa. Mia zia Elsa, una donna che nella sua lunga vita ha attraversato mille disavventure (orfanità prematura, tubercolosi a vent'anni, da cui ne è fuoriuscita forte come una tigre – il suo soprannome era Gata, la gatta, per l'agilità, trasmessagli in eredità da suo padre – al Gat – il gatto); rifiutata da tutti gli uomini come sposa e cercata solo per placare le prurigini sessuali di maschi dalla dubbia moralità. La zia Elsa s’innamora di Santino, più anziano di lei di circa vent'anni. Non proprio s’innamora. Si convince di esserlo. Per coronare il sogno della normalità tanto agognata. Essere portata all'altare da un uomo. Lui cercava una badante per la sua incipiente vecchiaia. Lei un marito, purchessia. Hanno unito due diverse intenzioni e due feroci solitudini per rimediare alle loro mancanze. Santino, però, piaceva – guarda un po' – anche alla Ghita, che vedeva nella zia Elsa un'acerrima rivale in amore. Oreste, un vecchio e ambiguo prosseneta, suggeriva alla Ghita di andare a depositare dei bigliettini sulla tomba della prima moglie di Santino, in cui scrivere maldicenze e parole screditanti la zia Elsa agli occhi di Santino. E Santino – puntualmente - trova questi “pizzini amorosi” e lo rivela alla zia Elsa, che leggendoli ne scopre il contenuto: “Caro al me Santin la Elsa è solo una povera orfana amalata che non ti farà mai felice”. Appreso questo colpo basso redatto da un anonimo, la zia Elsa decideva di scoprire a chi appartenesse quella mano vigliacca e codarda. Così, coinvolgeva mia madre in ripetuti appostamenti tra le tombe del cimitero per vedere senza essere vista chi fosse il/la colpevole. E in un giorno di sole, intorno a mezzogiorno e mezzo circa, dopo che le campane avevano battuto a lungo e festeggiato con squillanti rintocchi la dodicesima ora, sotto la luce canicolare di giugno, ecco che la Ghita entrava con fare circospetto nel cimitero, e si dirigeva alla tomba per depositare il bigliettino contenente la vile diffamazione.

Mezzogiorno e mezzo di fuoco.

Un duello sotto il sole tra due donne afflitte dalla stessa disperazione, quella di un’irraggiungibile felicità, che non giungeva mai a causa della loro diversità, punita con l'emarginazione dai sorrisi e dal godimento. La zia Elsa senza pensarci, con slancio chisciottesco contro i mulini a vento, caricava con furia selvaggia la Ghita, con unghie affilate di gatta in resta, artigliandole i capelli quasi a volerglieli strappare uno a uno, uno per ogni biglietto d'infamia. Ma la Ghita reagiva con pari impeto e violenza, forte della sua tempra ruvida di contadina. Mia madre si gettava nel mezzo, mettendosi a urlare per richiamare l'attenzione di qualcuno, perché aveva intuito – conoscendo le due donne – che il duello sarebbe stato all'ultimo sangue. Due titanesse che lottavano contro la miseria che la vita aveva riservato a entrambe, a coloro che nascono con una filigrana di ombra, in cui negli anni si  sono infilati spifferi di risentimento, rancore, rabbia, follia. Lottavano per essere incluse nella comunità dei cosiddetti normali, pur sempre disperati, diseredati dai banchetti della vita, ma quantomeno affacciati alla finestra per sbirciare il godimento degli altri. Lottavano per interrompere la crudeltà dell'esclusione. In quella furibonda lotta hanno perso entrambe. Hanno vinto entrambe. Queste narrazioni sono state - per me bambino - i primordi di una mitologia personale. Alla quale si aggiungevano piccoli tasselli da me vissuti in prima persona.

Come quello vissuto in un tardo pomeriggio estivo, in cui mi trovavo, non so perché, a correre dentro i filari di una vigna, al fondo del paese. Improvvisamente, sento levarsi un suono mai sentito prima. Una melodia dolce e sconosciuta. Non scorgevo nulla che potesse esserne la fonte. Quando vedo seduta su un tronco mozzato di un albero la Ghita, che portava alla bocca qualcosa che non riuscivo a identificare. Sembrava strofinasse le labbra contro. Ho pensato a un organo a bocca, ma non ero sicuro. E non osavo avvicinarmi per svariati timori: che smettesse di suonare, che m’inseguisse minacciosa; che fosse soltanto una mia visione per controbilanciare con il sublime di una serenata a cielo aperto il mostruoso dei racconti sulla Ghita, che aleggiavano come nuvole tempestose sul mio immaginario di bambino. Sono rimasto ad ascoltare per un po'. Poi, avendo bisogno di capire, sono corso a casa a raccontare l'accaduto. E mia madre che conosceva le abitudini della Ghita mi ha spiegato che si trattava di un pettine da uomo con avvolto intorno della carta velina. Il soffio contro la carta aderente ai denti del pettine produceva quel suono. Così, ho capito fin da allora che la musica è un soffio angelico che attraversa la carne del demonio. È questa apparente contraddizione a rendere la musica uno strumento di perdizione e allo stesso tempo di salvezza. Nella stessa nota è racchiuso l'urlo del demonio che prova a trattenere l'angelo dentro il suo buio e al contempo l'urlo liberatorio di chi è sfuggito a una presa mortale;  in cui si sono fuse insieme la paura tremenda di non farcela e l'entusiasmo devastante di chi ha appena scampato il pericolo.

Dentro di me sento ancora il retrogusto di quello che ho appena narrato. Quello di un rhum bevuto anni fa, rhum agricolo con un pezzetto di cioccolata. Il dolce che incontra il forte. Forte e dolce, quando si fondono in un unico sapore diventano pienezza. La sensazione che nella caverna della bocca vi siano milioni di corpuscoli, di bollicine, palloncini, mongolfiere bonsai, lanterne cinesi, cipria di polvere solleticata dai raggi di sole, pioggia che cade dal terreno sulle guance delle nuvole, caramelle volanti, baci senza labbra, schizzi d'onda raggrumati in salata galaverna.

Ma è giunto il momento di raccontare cosa è successo in quel lontano giorno tra la mia bicicletta e la Ghita. Io rondineggiavo garrulo con la mia bicicletta gialla da cross mentre la Ghita si trovava in mezzo alla strada, davanti al muro di cinta di casa mia, dove per tutta la mattina c'era stato l'unico banco del mercato di paese (può un banco solo fare un mercato? Se non basta una rondine a fare primavera …). E la Ghita, ogni volta, appena andato via il camioncino, si metteva a raccogliere le croste di formaggio per i suoi gatti. Era china in avanti come una mondina intenta a nettare il riso a mollo nell'acqua delle risaie. Io con la bicicletta sono arrivato da dietro senza averla vista. L'impatto è stato devastante, come se avessi colpito il muro di recinzione in pietra della mia casa. Lo schianto improvviso. Insieme al suo urlo mentre cadeva a terra a testa in giù. Io, che mi ero strisciato leggermente il freno contro la pancia, e avevo una mano sbucciata (quindi mi ero fatto, praticamente, nulla) mi sono finto morto. Temevo che la titanessa si alzasse e mi sbranasse, mi divorasse, con un'operazione contraria a quella di soffiare sulla carta velina avvolta attorno al pettine. Pensavo che mi aspirasse e mi conducesse direttamente agli inferi, perché sicuramente dentro di lei coesistevano molteplici e tremendi abissi. Il suo urlo, ahimè, ha richiamato l'attenzione delle persone e tra questa mia madre. Così, ho pensato a una doppia decapitazione. Se fossi sopravvissuto agli inferi, sarei stato percosso con furia baccantica da mia madre, che non vedendo la scena del delitto, stante la sua cecità, mi avrebbe iscritto comunque nel registro degli indagati, condannandomi all'istante colpevole di tutti i misfatti che accadevano nel mondo purché ne fossi presente. Quei pochi secondi d’immobilità rigormortica sull'asfalto sono durati dentro di me degli evi, ere geologiche in cui ho rivissuto la trasformazione cellulare dal dinosauro all'homo sapiens sapiens procidens. Ma contrariamente alla catastrofe che presagivo, la Ghita si è rialzata subito, per nulla dolorante e per nulla infastidita dall'accaduto, con la sola preoccupazione che non mi fossi fatto male.

Il mostro che diventa umano. La bestia che diventa la bella.

È stata lei ad aiutarmi a rimettermi in piedi. Mi sentivo il ranocchio che stava tornando principe, dopo l'incantesimo - non del bacio - ma dell'abbraccio della principessa/mostro. In quel preciso istante ho smesso di avere paura dei mostri.

Non esistono.

Ho scoperto che più duro di un muro c'era solo il corpo della titanessa. Che più duro dell'asfalto c'era solo il coraggio di rialzarsi. Ho scoperto anni prima di Erri De Luca – riferendosi a Don Chisciotte – che l'invincibile non è colui che non cade mai, ma colui il quale dopo essere caduto si rialza e prontamente si rimette in cammino.

E a proposito di Don Chisciotte, evocato due volte in questo racconto, ecco come lo descrive straordinariamente Nazim Hikmet.

 

DON CHISCIOTTE

 

Il cavaliere dell'eterna gioventù

segui, verso la cinquantina,

la legge che batteva nel suo cuore.

Partì un bel mattino di luglio

per conquistare il bello, il vero, il giusto.

Davanti a lui c'era il mondo

coi suoi giganti assurdi e abbietti

sotto di lui Ronzinante

triste ed eroico.

 

Lo so

quando si è presi da questa passione

e il cuore ha un peso rispettabile

non c'è niente da fare, Don Chisciotte,

niente da fare

è necessario battersi

contro i mulini a vento.

 

Hai ragione tu, Dulcinea

è la donna più bella del mondo

certo

bisognava gridarlo in faccia

ai bottegai

certo

dovevano buttartisi addosso

e coprirti di botte

ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati

continuerai a vivere come una fiamma

nel tuo pesante guscio di ferro

e Dulcinea

sarà ogni giorno più bella.

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13 Aprile 2020 

 

L'espressione che utilizziamo per definire l'ascolto è: “mettersi all'ascolto”. Cioè, collocarsi nel luogo giusto per ascoltare. Occupare lo spazio giusto. Ascolto deriva da auris = orecchio. Ascoltare è porgere attentamente e adeguatamente l'orecchio. Orecchio è quindi una parte per il tutto. Porgere l'udito. Udire è essere intento, essere propenso verso qualcosa, verso qualcuno. Porgere, appunto. Ascoltare è un verbo d'azione. Implica una torsione nella direzione spaziale giusta. Significa essere attenti. Avere attenzione. Attendere. L'attesa è quindi sapere mirare il punto preciso da cui proviene la fonte dell'ascolto. Significa reggere quella postura di chi è pronto ad accogliere l'altro. Ascoltare è l'azione fondante le relazioni. Non esiste relazione se non c'è ascolto. Relazione ha una curiosa etimologia. Relatus è il participio passato del verbo referre, riferire, portare indietro. Avere una relazione significa avere qualcosa da portarsi indietro dall'altro. Relazione è avere qualcosa da riferire. La relazione si manifesta nell'attesa. Nel porre attenzione. Maestra d'eccellenza alla mia educazione all'ascolto è stata mia madre. Per meglio dire - la sua forzata condizione di cecità. L'orecchio è diventato lo strumento cardine della sua esistenza. La necessità di porgere l'orecchio verso la fonte solleticante il senso dell'udito. Cogliere la direzione giusta. Lo spazio di provenienza dell'altro. L'ascolto di mia madre era estremo come uno spasimo. Uno vero e proprio strappo della voce e dei suoni per portarlo istantaneamente nel raggio della sua percezione e del riconoscimento. Un arraffare. Sottrarre con violenza dal contesto. Per potere riferire, portare indietro qualcosa. Portarsi dentro a una relazione. Altrimenti, in assenza di richiami sonori - il deserto buio della cecità. Mia madre mi ha educato, quindi, alla religione dell'ascolto. Sopraffatta dalla sua mancanza di vista, mi ha fornito gli stessi strumenti di un cieco. Io che avrei potuto nuotare e correre nella luce sono stato avviato alla predilezione dell'udito come senso di orientamento nel mondo. Per mia madre le parole sono state la fonte da cui sgorga ogni relazione. La voce di mio padre era corpo al suo cospetto. Anche la mia voce non era solo una vibrazione dell'aria, ma un pesce all'amo della lenza lanciata da mia madre. Le parole come scogli sui quali mia madre si aggrappava e poi si distendeva dopo l'attraversata nel mare buio dei suoi occhi. Religione è una parola laica. È una cura riguardosa, un guardare con attenzione. Re-ligare: unire insieme. La religione dell'ascolto che si trasforma nella religione della relazione. Per mia madre le parole erano corpi. Dotate quindi di movimento, di gesticolazione, di sistema linfatico e nervoso, di odore, di sudore, di vitalità e di apatia, di entusiasmo e di reticenza. Credo di essere diventato poeta nel momento in cui ho appreso che le parole erano vive, erano animate, servivano ad animare, tenere uniti, fornire una direzione, sottrarre una donna dal buio. La parola doveva quindi essere leale, onesta. Mai silenziosa. Sempre esprimente se stessa. Ho appreso allora che ogni relazione è un sistema verbo-circolatorio. Il cuore che pompa è l'ascolto. Per chi ascolta, ogni parola pronunciata è una detonazione. Mia madre veniva rassicurata dalla risposta di mio padre “sono qui”. Presente. Dono. Presenza che instaura una relazione basta sull'ascolto. Dalla mia bassa statura di bambino alzavo gli occhi al cielo e vedevo quelle parole/rondine volteggiare nell'aria. La primavera della relazione dei miei genitori. La destituzione della vista come senso primario di conoscenza per affidarla all'udito. L'ascolto è il senso principe della prossimità. Non riesce a equiparare la potenza tele-visiva degli occhi. Perché necessita di vicinanza. Di contatto. Di orizzonte stretto attorno al collo come una sciarpa.

Anni più tardi, avrei incontrato un'altra maestra di ascolto. Questa volta una bambina. Lei diceva di chiamarsi Momo. E di essersi data lei il nome. Se qualcuno le chiedeva quando era nata, lei, dopo averci pensato per un po', rispondeva: “Se mi ricordo bene, ci sono sempre stata”. E se qualcuno insisteva per conoscere la sua età, lei allora rispondeva: “Ho cento anni”. Viveva nella periferia di una grande città, tra le rovine di un anfiteatro, conquistandosi però la fiducia e la simpatia di tutti. Nonostante la sua eccentricità, lei possedeva le stesse capacità di qualunque altro bambino. Ma eccelleva, anzi, era unica, in una cosa sola: come nessun altro era capace di “ascoltare”. Così ce la descrive Michael Ende.

 

“Non è niente di straordinario, dirà più di un lettore; chiunque sa ascoltare.

Ebbene è un errore. Ben poche persone sanno davvero ascoltare. E come sapeva ascoltare Momo era una maniera assolutamente unica.

Momo sapeva ascoltare in tal modo che ai tonti, di botto, si affacciavano alla mente idee molto intelligenti. Non perché dicesse o domandasse qualche cosa atta a portare gli altri verso queste idee, no; lei stava soltanto lì e ascoltava con grande attenzione e vivo interesse. Mentre teneva fissi i suoi vividi grandi occhi scuri sull'altro, questi sentiva con sorpresa emergere pensieri – riposti dove e quando? - che mai aveva sospettato di possedere.

Lei sapeva ascoltare così bene che i disorientati o gli indecisi capivano all'improvviso, quello che volevano. Oppure i pavidi si sentivano, a un tratto, liberi e pieni di coraggio. Gli infelici e i depressi diventavano fiduciosi e allegri. E se qualcuno credeva che la sua vita fosse sbagliata e insignificante, se credeva di essere soltanto una nullità fra milioni di persone, uno che non conta e che può essere sostituito – come si fa con una brocca rotta – e andava lì... e raccontava le proprie angustie alla piccola Momo, ecco che, in modo inspiegabile, mentre parlava, gli si chiariva l'errore; perché lui, proprio lui così com'era, era unico al mondo, quindi, per la sua peculiare maniera di essere, individuo importantissimo per il mondo.

Così sapeva ascoltare Momo!”.

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10 Aprile 2020

L'ascolto è la religione che ci lega al mondo, all'umanità che lo popola. L'ascolto è l'azione della prossimità, che ci invita ad altra prossimità. Ad anelli concentrici. Il nostro corpo è l’epicentro del sisma che ci pervade dopo avere prestato attenzione. Combustibile del desiderio. L'uomo racconta storie per evocare e convocare l'assenza. Quello che non può portare con le mani prova a portarlo con le parole. Le parole udite nella prossimità giungono impregnate di odori e profumi, di colori e di venature che giungono da lontano. L'ascolto è il primo passo per mettersi in cammino. Le due etimologie di trovare: colpire e incontrare. L'ascolto ci colpisce e ci spinge a incontrare. Dall'astrazione di questa riflessione passo a un episodio attinto dalla mia primissima infanzia.

Bambino allevato nel grembo di una casa vecchia duecento anni, - costruita in sabbia e pietra, con mura spesse e finestre dotate di sbarre prigionali, al centro di un paese di poche anime, anche se piantate in corpi forti e resistenti alla fatica e alle nebbie piemontesi -, vedevo nel presepe tutta la magia di un luogo esotico oltre ogni immaginabile latitudine terrestre. C'erano rappresentati tanti mestieri, animali pascolanti in libertà, soprattutto pecore e caprette, casette con piccole lucine che io pensavo emanassero calore come tanti piccoli soli, fiumi sbertuccianti di carta che io immaginavo ugualmente essere liquidi e zampillanti di pesci. Non c'erano armi, e questo è un dettaglio che mi era già caro. Pensa un po'. C'era la capanna in cui una notte sarebbe nato un bambino prodigioso, riscaldato dal solo fiato di animali (che avrei desiderato tanto anch'io al mio fianco, visto che la vecchia casa era mal riscaldata per naturale costituzione edilizia e per risparmiare cherosene, viste le non abbienti risorse economiche familiari). C'era del muschio che era veramente muschio. E io chiedevo dove si trovasse questo eden meraviglioso. “A Betlemme”, mi rispondevano mio padre e mia madre. Betlemme. Una parola magica, apotropaica. Misterica. Evocativa del mistero dell'altrove. Avrei scoperto molti anni dopo che in arabo significa “casa della carne” e in ebraico “casa del pane”. Ma pur senza saperlo - quella parola era già cibo per me. Nutrimento per la mia fantasia. Vagheggiavo mondi inesplorati. Tutto questo all'età di neanche tre anni. Quando un bel giorno, nel piccolo paese dove abitavo, vedo giungere un gregge di pecore belanti e scampanellanti. Quell'immagine mi ha evocato immediatamente le pecore e le caprette di cui il presepe era costellato. E per un attimo ho pensato che quel mondo - tanto vagheggiato - si fosse materializzato proprio davanti a me. La gioia è stata - e resta - indescrivibile. Paragonabile solo a quello che non molti anni dopo avrei compreso essere un orgasmo. L'estasi immaginifica di un bambino catapultato dentro le sue visioni. Così, senza riflettere, mi sono messo a correre dietro a quelle pecore che stavano attraversando il paese e mi sono mescolato a loro. Non raggiungevo nemmeno l'altezza del loro garrese. Quando improvvisamente mi sono sentito agguantare dalle grandi e forti mani di mio padre, a metà strada tra l'ilarità e la preoccupazione, la fierezza del padre che apprende quanto suo figlio fosse prematuramente intraprendente e lo sbigottimento per questa fuga dal nido materiale. “Ma dove stai andando”, è stata la domanda – come sempre, affettuosamente seria - di mio padre. “A Betlemme”, è stata l'immediata mia risposta. Il nutrimento ricavato da quella parola magica mi aveva spinto a partire per il mio primo grande viaggio. Questo accadeva nell'anno 1968. All'età di tre anni. La temperatura politica del più grande movimento di protesta del secolo scorso aveva surriscaldato anche il mio animo di bambino, destinato a diventare un ribelle nonostante la meta religiosa non lo facesse presagire. Certe parole – che diventano vere e proprie esperienze di vita – lievitano dentro di noi come una pasta madre che fermenta lentamente per giorni, mesi, anni. Fino a quando il suo volume non può più essere contenuto in noi. E tracima. E diventa nutrimento di desiderio che quasi sempre si avvera. Tra i quaranta e i cinquant'anni della mia vita sono stato sette volte a Betlemme. Per ragioni troppo lunghe da spiegare, che fuorvierebbero il senso di quest'avventura. Betlemme non è dietro l'angolo. Non è un luogo scontato in cui imbattersi per sette volte. Sette diversi soggiorni, permanenze. Città attraversata con ogni mezzo di trasporto. A piedi. Alla guida di un'auto di un fraterno amico palestinese. Tutto questo è accaduto a un bambino che prova a fuggire dalle nebbie lattiginose che colano dal cielo in certe mattine pedemontane, per inseguire il suo sogno. L'unico luogo che i genitori gli avevano indicato fatta eccezione della piccola costellazione di paesi in cui il bambino era nato e stava crescendo. Genitori poco viaggianti e per nulla viaggiatori. Betlemme. Parola-scintilla che accende la miccia della curiosità di un bambino. Il primo verso della mia vita. Nomade. Errante. Quell'andare vagando come brancolante fra le tenebre. Le tenebre che calavano sulla mia stanzialità. Alla rincorsa di un gregge. Moltitudine che si aduna, si avvicina, si accosta. Il formarsi di una comunità. Ho passato tutta la vita a costruire comunità, intese, alleanze. Relazioni. Ad aggregare. A entrare a far parte di un gregge. In quella rincorsa c'è tutta la potenza di un gesto profetico. Il destino non è da ricercare nel tempo a venire. Il destino è la costellazione tracciata unendo i punti delle nostre traiettorie esperienziali. Tempo che racchiude spazio. Spazio che racchiude tempo. Noi uomini siamo talpe che s’immergono nel tempo e nello spazio, nutrendosi di vermi. A scavare. A rendere cava quella parte di mondo che noi perlustriamo alla ricerca della felicità. Solo dove c'è cavità c'è possibilità di fecondare, di rendere pregna la terra cava. Un bambino di tre anni che in quella rincorsa s’immerge nel tempo e nello spazio, per fuoriuscire quarant'anni dopo a Betlemme. La casa della carne. La casa del pane. Per fuggire dalla casa di sabbia e di pietra.

La fuga è l’infanzia. Poi giunge l’ardore dell’adolescenza: il cammino. Il viaggio è la maturità, la consapevolezza che quell’allontanarsi da un luogo - per sottrarsi al pericolo mortale della sedentarietà – si è trasformato in un’erranza perpetua. Lascio al premio Nobel - José Saramago – descrivere cosa è successo a me dopo quella prima marcia solitaria incontro alla vita.

 

 

“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito”.

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8 Aprile 2020

Poeti si nasce, analfabeti si diventa. Proprio così. L'eruttiva creatività e la capacità espressiva di quando si è bambini vengono intorpidite da modelli pedagogici familiari e scolastici non incentivanti il perdurare di questa condizione poetica. Come può allora un adulto recuperare il poeta che era nato insieme a lui?

Molto semplice.

Tornando a giocare a Nascondino.

Nel gioco del Nascondino è racchiuso tutto il segreto del fare poesia. Mentre nel gioco del “ruba bandiera” è contenuto il segreto contrario: la ragione per cui a un certo punto della vita veniamo invitati un po' alla volta a prendere le distanze dalla primigenia forma espressiva poetica.

Perché la poesia viene prima? Perché è la forma con la quale l'uomo si approccia al linguaggio?

Immaginiamo i primi uomini che s’incontrano tra radure e foreste incontaminate. Nel momento stesso in cui un uomo avvista un suo simile che comincia a emettere dei suoni per richiamare la sua attenzione, per richiamarlo a sé.

Ehi, chi sei? Come ti chiami? Dove vai? Vieni qua! Fermati!

Sono parole che fanno vibrare l'aria. Scoppiettano. Devono uncinare un'attenzione e riportarla vicino al richiamante. Sono poche sillabe. Sonanti. Tuonanti. Ecco spiegata la ragione per cui la poesia è musicalità. Canto. Canzone. Perché c'è dentro tutta l'energia sprigionata dal desiderio d'incontrare l'altro. Quello che non conosciamo ancora. La parola poetica è sempre con-vocante. E con-suonante. Chiama sempre qualcuno a sé, perché a questo qualcuno è indirizzata. La prima forma di poesia è il bisogno ancestrale di raggiungere un ascolto. È una supplica d'amore. Dove c'è poesia c'è sempre una comunità che nasce e prolifera, per stare in pace. Che ha sempre voglia di incontrare. Di porre domande semplici e vitali. “Hai voglia di fare l'amore con me?”. L'endecasillabo è nato facendo l'amore. Per questo è il verso per eccellenza della nostra tradizione poetica. Resta un po' con me! Mangiamo insieme? Esprimere un desiderio e comunicarlo nello stesso istante. Espressione e comunicazione in rapporto di rivalità. Ma non nel senso di contrasto. Al contrario. Chi sono i rivali? Quelli che siedono sulle rive del fiume. Il fiume scorre solo se ci sono due rive, due sponde. Il linguaggio/fiume - senza le sponde simmetriche di espressione e di comunicazione - non scorre. È facile da comprendere. Una riva sola smette di essere una riva e diventa un muro. Una diga. Dove l'acqua ristagna. Nell'era dei mezzi di comunicazione di massa, nell'era in cui la comunicazione ha sbaragliato il campo all'espressione, l'umanità stagna nell'acquitrino paludoso della Rete. La comunicazione di massa sta spegnendo l'espressione del singolo. Non può esserci espressione dove non c'è ascolto. Prossimità. L'espressione è un ex-premere. Fare uscire premendo. Proprio come il dentifricio fuoriesce dal tubetto. Con un gioco di parole stimolato dalla parola dentifricio, esprimersi è neologisticamente un'attività di 'dentrifricio': sfregare quello che è chiuso dentro di noi – il dentifricio nel tubetto - per riversarlo sulla pagina bianca - spazzolino. Un'attività che richiede tempo. Ascolto profondo. Uno stato di allérta sensoriale. Istinto animale e intelligenza umana che si coagulano in un gesto solo. Esattamente quello che accade giocando a Nascondino.

Al centro di questo gioco - la cui origine si perde nella notte dei tempi – è l'atto del nascondersi, non tanto alla vista, quanto a una 'prima vista'. Il gioco richiede quindi di prestare la massima attenzione. Lo studio dello spazio in cui le persone sono scappate a nascondersi. Un prendersi cura degli assenti. Di chi sparisce allo sguardo. Di avere voglia di cercare e incontrare l'Altro. Tutto parte da un luogo che si chiama tana, in cui un giocatore che è stato prescelto, chiude gli occhi e inizia una conta a voce alta per consentire - in quel lasso di tempo - che tutti gli altri giocatori trovino un nascondiglio. Terminata la conta, il giocatore si mette alla ricerca di tutti i giocatori spariti al suo sguardo. Di norma si sceglie uno spazio limitato in cui giocare. Spazio circoscritto in uno scenario noto, molto spesso anche frequentato dai partecipanti. Un cortile, un giardino con piante, l'interno di un'abitazione, persino. Il giocatore che si mette alla ricerca deve individuare non solo dove si nascondano ma anche l'esatta persona che si è nascosta, e - una volta indicata - correre a toccare con la mano la tana in cui è avvenuta la conta a occhi chiusi. Ogni volta che viene toccata la tana, il giocatore individuato risulterà catturato e diventerà prigioniero della tana stessa. Nel caso in cui il giocatore nascosto riuscisse a raggiungere la tana prima dello scopritore dei nascondigli e dei nascosti - al grido a voce alta di 'tana' - risulterebbe all'istante libero e non prigioniero. L'ultimo giocatore che fuoriesce dal nascondiglio ha il potere – raggiungendo la tana prima dello scopritore – di gridare 'tana – liberi tutti', facendo uscire di prigione tutti i giocatori catturati, determinando definitivamente la sconfitta dello scopritore. Queste sono - a grandi linee - le regole del gioco. Ma quale profonda esperienza vivono i giocatori? Un'esperienza unica e straordinaria. Quella di leggere e di scrivere nello stesso istante.

Ma partiamo dall'inizio.

Cosa rappresenta la conta a occhi chiusi del giocatore che dà inizio al gioco? La cerimonia iniziatica sta per cominciare. La conta a occhi chiusi è una soglia da varcare. Per entrare in un altro spazio e in un altro tempo. La condizione necessaria per abitare la dimensione dell'ascolto profondo. Cosa accade alla fine della conta e alla riapertura degli occhi? Che comincia una lettura diversa dello spazio circostante. Cosa è cambiato? È cambiato tutto. Quello che prima era soltanto un tronco d'albero, una porta, una tenda, un cespuglio, una colonna, un armadio, ora diventa un paravento dietro al quale si nasconde un corpo. Una verità. E il giocatore che ha finito di contare comincia una lettura diversa. Comincia a cercare dei segnali minimi. La vista perde il primato tra i sensi, poiché occorre attivare l'olfatto. L'udito. Dalla vista alla visione. Chi si nasconde dietro a cosa? Il cercatore dei giocatori nascosti compie due azioni contemporaneamente. Legge attraverso tutti i sensi lo spazio per avvertire la verità, ciò che i greci chiamavano non-nascondimento. Analisi e intuizione. In attesa di una rivelazione. Ma mentre il cercatore prende la mira per cogliere chi si nasconde dietro a un cespuglio, allo stesso tempo, per agevolare la sua ricerca, compie dei passi cercando una direzione che lo conduca a una soluzione. Una traiettoria che può essere lineare, decisa. Oppure incerta, balzellante. Sincopata. Piccoli passi in orizzontale. Lunghe falcate per fare esperienza dello spazio. Cosa sta facendo? Molto semplicemente - scrive. I movimenti del cercatore non sono altro che una scrittura. Questo altro non è che lo stile. Ognuno, ovvio, ha uno stile diverso. Unico. Il coraggioso - che si lancia nello spazio per stanare i giocatori nascosti. Il meticoloso - che in assenza d’indizi certi presidia la tana, rinunciando quasi a individuare i giocatori nascosti, ma certo che nessuno riesca così a uscire dal nascondiglio per correre verso la tana per liberarsi. Il nascondino insegna che lettura e scrittura – leggere e scrivere - sono lo stesso gesto complementare. A volte, addirittura, un gesto unico. La lettura che si serve dei sensi noti ma soprattutto del sesto. Quello misterioso. Le accelerazioni neuronali che creano dei cortocircuiti cerebrali e provocano fantasmagorie, visioni. Un'ultra sensorialità anarchica e indomabile. Impulso al movimento. Che sospinge il cercatore a dirigersi verso il corpo nascosto dietro a quella che prima era solo una tenda, solo un cespuglio, e ora, invece, rappresenta il mistero della vita.

Parimenti il giocatore che si è nascosto, non potendo avvalersi della vista, poiché il suo affacciarsi renderebbe riconoscibile il volto e quindi facilmente catturabile nella tana, è costretto a rispolverare sensi spesso arrugginiti. Mettersi all'ascolto dello scalpiccìo di chi sta cercando di scoprire il nascondiglio. Fiutare l'aria per riconoscere un profumo, un odore. Attivare anch'egli/anch'ella il sesto senso. Quell'ultra sensorialità che spinge ad agire. A mettersi in pericolo. O in salvo. Impulso irrefrenabile a uscire. A correre verso la tana. E poi, all'improvviso, la decisione presa in un lampo di uscire allo scoperto e di correre verso la tana per liberarsi. Verso la libertà, quindi. Verso. Versi. Ecco svelato come nasce un verso poetico. Dopo il surriscaldamento neuronale. Dopo che carne, sangue, cuore, respiro, anima, scheletro e pelle si sono fusi in un unico gesto. Il verso poetico – quando strazia – è sempre una corsa a perdifiato verso la libertà. Dopo la spremitura. Dopo l'ex premere. Che diventa espressione. L'espressione è un'esplosione di sensazioni che diventano una forma che prende corpo nello spazio e nel tempo. Questa è la scrittura per urgenza. L'etimo di urgere è 'spingere fuori'. Non può esserci rivelazione espressiva senza un'analisi impastata con l'intuizione. Altro etimo di urgere è 'chiudere in prigione'. Esprimere è ciò che fugge da una prigione verso la libertà. Per questo il verso è quella traiettoria fulminea. Centometrismo verbale conto il maratonetismo della prosa. Per questo il verso è ritmico. Folgore e tamburo. Il passo del centometrista sulla pista. Che batte il piede. Ogni sillaba è una falcata. Il verso è il mezzo più veloce per andare da un punto all'altro. Nel verso non c'è ri-flessione. Solo guizzo. Lesto come il lampo. Che squarcia l'oscurità illuminando per un minimerrimo istante la notte. Poi torna il buio, placenta del mistero.

Chi sono i più grandi giocatori di nascondino?

Ovvio, i bambini. Perché sono i meno contaminati dalle sovrastrutture razionali. I meno fantasiosamente indeboliti. Meno corrosi di adultità adulterata. Pronti a meravigliarsi sempre. Gli unici che sanno prendere sul serio il gioco. A mirare, etimo di meraviglia. A prendere la mira. E a precipitarsi verso la tana. A scrivere un verso d'urgenza, incuranti degli ostacoli sul tragitto – che vengono spazzati via come dune in una tempesta di sabbia -; incuranti di venire catturati. La libertà non è arrivare alla fine del verso. La libertà è massima durante la corsa, durante la scrittura del verso. Perché in quel tragitto c'è espressione pura in atto. Azione. Ciò che fuoriesce dalla prigione interiore. Correre. E andare ogni volta a capo.

Il nascondino insegna che il talento porta quasi sempre allo spreco della sua potenzialità. Il talentuoso della corsa non ha alcun bisogno di praticare l'arte dell'ascolto profondo, l'attivazione dell'ultra sensorialità. Usain Bolt può balzare fuori in qualsiasi momento e la sua falcata lo porterà a liberarsi. A toccare la tana prima del cercatore di nascondigli. Ma quasi sempre il talento porta a una falsa libertà. Perché raggiunta con meriti che esulano dalla partecipazione profonda al gioco. Ed essendosi liberato, il talentuoso non deve nemmeno sperare nel “tana, libero tutti” dell'ultimo giocatore nascosto. Spesso il talentuoso viene isolato, in quest'attesa inerte e infruttifera per lui, che è già (falsamente) libero. Spesso il talentuoso si annoia. O perde la voglia di giocare. Si allontana dal gioco. Si perde per strada. Per questo i bambini, che non sanno ancora riconoscere il loro talento, pur essendone già intrisi in ogni loro fibra, sono i più grandi giocatori di nascondino. Perché sanno stare alle regole. Sanno attingere e affidarsi alla loro genialità. Sanno meravigliarsi del magico mutamento dello spazio dopo la conta. Sanno meravigliarsi dei loro super-poteri. Sono perennemente stimolati. Stimolo non è altro che il pungiglione. Qualcosa che punge. Una puntura. Uno stigma. Per questo i poeti sono gli stigmatizzati dalla società. Portano il marchio a fuoco di questa puntura. Di questa eccitazione da pungolo. Lo stesso che induce gli animali a compiere operazioni con maggiore lena. Come i buoi con l'aratro. Il solco tracciato dal vomere è il verso scritto da chi si esprime, correndo verso la libertà. Questo  - e sicuramente molto altro - insegna il gioco del Nascondino.

 

Ma si sa che i 'cattivi maestri' sono indispensabili per la nostra formazione. E cattivo maestro è stato sicuramente il gioco di “Ruba bandiera”.

Innanzi tutto, per iniziare a giocare si traccia una linea retta in mezzo al terreno di gioco e altre due linee a essa parallele ed equidistanti, dove i giocatori si dovranno collocare per fronteggiarsi. Questo gioco come primo disvalore insegna a disporsi su due file - una di fronte all'altra. Proprio come in guerra. Di fronte al nemico. Per affrontarsi e non per con-frontarsi. Lo spazio tra le due linee costituisce una vera e propria frontiera. Una striscia di territorio che sta a ridosso del confine.

Due schieramenti opposti. Comandati da un porta-bandiera. Che simboleggia l'autorità. Il potere. Per di più spersonalizzante. In quanto i giocatori schierati rispettivamente sulle due linee contrapposte prenderanno un numero in ordine progressivo da uno in avanti. Quindi per ogni fila ci saranno solo numeri. Si perde l'identità. Il nome. Si diventa numeri. Doppi, per di più. Perché due numeri uno, due numeri due e così avanti per tutti i partecipanti. Il porta-bandiera chiamerà a questo punto un numero qualsiasi. Entrambi i giocatori - portanti lo stesso numero - dovranno precipitarsi verso la bandiera per rubarla. Per ghermirla. Afferrarla sottraendola all'altro. Vince chi riesce a strappare la bandiera e correre in salvo oltre la propria linea. Vince anche chi inseguendo riesce a toccare, normalmente vista la foga dei partecipanti - a colpire -, la schiena avversaria prima della linea.

Vince quindi anche il vile che non prova nemmeno a fare una mossa per portare via la bandiera ma semplicemente si mette all'inseguimento per raggiungere l’avversario prima della linea di salvezza. Ma l'aberrazione più grande è questa. Poniamo che io sia il numero uno e nell'altra fila il numero uno corrispondente sia la ragazza che alle scuole medie corteggio dal primo giorno in cui l'ho vista sedere nel banco. Ebbene, questo gioco mi mette nella condizione di arrivare vicino alla bandiera, insieme a lei, in questa danza nevrotica nell'attesa che qualcuno compia la prima mossa. Un abbraccio simulato. Un avvolgere con le braccia senza toccare l'altro corpo, perché se si tocca il corpo - prima che l'altro afferri la bandiera - il punto va assegnato all'altra squadra. In questa metafisica e surreale mimica muta dei corpi, in questo duello senz'armi, il mio volto potrebbe essere a dieci centimetri dalla ragazza di cui mi sono segretamente innamorato. E invece di godere di quel sensuale strofinamento dell'aria a distanza ravvicinata, la concentrazione è rivolta tutta alla bandiera. Gioco, quindi, che fa scaturire ansia da prestazione. Come se la bandiera fosse un fallo da impugnare, nello spasimo che solo uno trarrà il piacere profondo. Concentrazione sull'idea di afferrare. Di prendere. Di sottrarre. Di rubare. Di portare via. Tutti sinonimi di capire. Càpere. Prendere, appunto. Mentre un gesto poetico sarebbe infischiarsene della prestazione e godersi quell'istante magico di vicinanza alla bocca, a un respiro, a due occhi, a un odore di corpo che trasuda sensualità. È il gioco per eccellenza agli antipodi del poetico. In poesia non ci sono frontiere, linee, porta-bandiera, nemici, fughe, furti, colpi alla schiena. Questo è il volere capire a tutti i costi. Gioco dell'astuzia. Della scaltrezza. Dell'agilità delle membra e della stasi affettiva e intuitiva. Non che nella vita non sia necessario a volte capire. Se devo montare la lama del tagliaerba o una lampadina devo capire il meccanismo. Devo concentrarmi. Devo correre oltre la linea. Nella poesia, invece, devo rimanere vivo nella mia esperienza di uomo. Rifiutare di trasformarmi in un numero. Ruba-bandiera è il gioco della nientificazione individuale. E gli altri giocatori da dietro le linee sono un branco famelico di una cosa sola: che giunga la bandiera rubata all'avversario.

Per questa ragione, non esiste un vero ambulatorio di poesia senza riprendere a giocare a nascondino. Leggere e scrivere è intuire cosa c'è dietro alla parola nuvola. E scrivere è fare precipitare la nuvola sulla pagina bianca. Quando leggo nuvola devo volarci dentro. La parola è il trampolino che mi lancia dentro alla nuvola. Che il gioco del nascondino insegna non essere mai solo una nuvola. Il verso ha l'urgenza di chi corre verso la tana per liberarsi, e se ultimo, per liberare tutti. Sono sempre gli ultimi, quelli che sanno attendere, che fiutano il momento giusto per uscire allo scoperto, quelli che non sono vampirizzati dal tempo, che trovano la soluzione per tutti. Che liberano tutti.

Mentre il gioco del Ruba bandiera educa allo scontro, alla perdita della propria storia. Viatico a trasformare i cittadini in sudditi, in marionette scattanti al comando spersonalizzante del porta-bandiera. Vero e proprio dittatore del gioco.

Poesia e gioco, dunque. Gianni Rodari ha saputo tenerli insieme magistralmente. Eccone un fecondo esempio.

 

La luna bambina

 

E adesso a chi la diamo

questa luna bambina

che vola in un “amen”

dal Polo Nord alla Cina?

 

Se le diamo a un generale,

povera luna trottola,

la vorrà sparare

come una pallottola.

 

Se la diamo a un avaro

corre a metterla in banca:

non la vediamo più

né rossa né bianca.

 

Se la diamo a un calciatore

la luna pallone

vorrà una paga lunare:

ogni calcio un trilione.

 

Il meglio da fare

è di darla ai bambini,

che non si fanno pagare

a giocare coi palloncini:

 

se ci salgono a cavalcioni

chissà che festa;

se la luna va in fretta,

non gli gira la testa,

 

anzi la sproneranno

la bella luna a dondolo,

lanciando grida di gioia

dall'uno all'altro mondo.

 

Della luna ippogrifo

reggendo le briglie

faranno il giro del cielo

in cerca di meraviglie.

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6 Aprile 2020

Ieri, 5 aprile 2020, in Italia si è celebrata per la prima volta nelle case la Domenica delle Palme. E Papa Francesco ha celebrato la messa in streaming. È curioso e perturbante che la domenica, per eccellenza, in cui la folla scende in strada con rametti d'ulivo per ricordare il trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme, in sella a un asino, ieri – forzatamente – sia stata vissuta dai credenti all'interno della loro abitazione. Anche se ieri l'altro, mentre ero seduto sul balcone per respirare la luce calda del sole, la vecchina che abita nel condominio dietro al mio, si è affacciata alla recinzione di Giada, la ragazza che vive al piano di sotto, chiedendole con estrema e pudica dolcezza: “Ho visto che hai un ulivo nel giardino; me ne daresti un piccolo ramo?”. E Giada, con solerte e delicata premura, l'ha resa una donna felice. Un quadro commovente. Allora, quel mio commuovermi, quel muovermi insieme a loro, mi ha riportato alla luce un nesso che dentro di me scatta fulmineo ogni volta che penso o pronuncio – domenica delle palme. Alla canzone più enigmatica che Fabrizio De Andrè abbia mai composto e cantato. La domenica delle salme. Compie trent'anni questa canzone, contenuta in un album straordinario – Le nuvole. Le canzoni non si possono raccontare, lo sappiamo. La musica è un'esperienza sensoriale e sinestesica. Un'onda sonora che ci travolge e trasporta in altri mondi. Ma i cantautori sono coloro i quali prima scrivono e compongono - per poi cantare le loro canzoni. I testi delle canzoni di Fabrizio De Andrè sono tra i pochi ad assumere uno statuto autonomo, svincolato dalla musica e dagli arrangiamenti sonori. De Andrè è stato forse l'ultimo epigono della poesia classica. L'Omero del '900. Perché la poesia nasce per essere mandata a memoria attraverso il canto. La domenica delle salme, allora, può essere letta e gustata verso per verso: basta lasciarsi cullare e sballottare dal ritmo delle sue strofe. È un testo oscuro, enigmatico, ermetico. Iniziatico. Da cui si diffonde l’aroma di apocalisse più che di festa. Visioni, incubi, fantasticherie che evaporano, però, dalla realtà, dal tempo storico vissuto da De Andrè, dentro l'osservatorio privilegiato del suo raffinatissimo talento e della sua genialità artistica. Scritta nel 1990 e composta insieme al suo fedele quanto creativo scudiero - Mauro Pagani. L'anno precedente, il 1989, si era aperto con l'arresto a Praga di centinaia di manifestanti, tra i quali Václav Havel, durante la commemorazione della morte di Jan Palach (simbolo della resistenza anti-sovietica, che si cosparse il corpo di benzina e poi si diede fuoco, vent'anni prima, era il 1969, per dimostrare al mondo il suo dissenso dal regime comunista); e si era chiuso il 9 novembre, giorno in cui crolla fisicamente e simbolicamente il muro che divideva la città di Berlino dal 1961. Ma lungi da me l'idea di fare una dotta (e noiosa) esegesi del testo. Non ne sarei all’altezza. Mi piace solamente segnalare i versi che contengono una densità poetica così elevata da trasformarsi in buchi neri di senso. “Il poeta della Baggina / la sua anima accesa / mandava luce di lampadina / gli incendiarono il letto / sulla strada di Trento / riuscì a salvarsi dalla sua barba / un pettirosso da combattimento /”. Lo spunto è un barbone - ospite della Baggina, ovvero il Pio Albergo Trivulzio (tornato di nuovo alla ribalta della cronaca), - incendiato vivo. La sua anima accesa mandava luce di lampadina. L'uomo - mentre si sta definitivamente consumando – diventa, a sua volta, oggetto di consumo. La denuncia politica della nascita di gruppi composti da estremisti di destra, racchiusa in versi che mantengono il sapore dell'invettiva senza però rinunciare al lirismo immaginifico. L'immagine del pettirosso da combattimento, l'ossimoro della fragilità che incrudelisce, dell'uccello grigio dalla macchia rossa sul petto che annuncia l'arrivo del freddo. “La scimmia del quarto Reich / ballava la polka sopra il muro / e mentre si arrampicava / le abbiamo visto tutti il culo /”. Catastrofe e scherno. Decadenza e oscenità del Potere. “La domenica delle salme / si portò via tutti i pensieri / e le regine del 'tua culpa' / affollarono i parrucchieri /”. L'oblio cala e sradica tutti i pensieri e quelli che si sentono sempre assolti, dall'avere individuato - sempre in qualcun altro - il capro espiatorio per ogni colpa, tornano a riaffollare i saloni dei parrucchieri, perché conta molto di più coltivare quello che cresce sopra - e non dentro - la testa. “Voglio vivere in una città / dove all'ora dell'aperitivo / non ci siano spargimenti di sangue / o di detersivo /”. L'utopia che contiene il tracollo, l'infrollimento della società. L'utopia del mondo che aborre gli spargimenti di sangue. Ma solo durante l'ora dell'aperitivo, dove il tripudio dei convenevoli non può essere ammorbato dalla rovina del mondo. “Eravamo gli ultimi cittadini liberi / di questa famosa città civile / perché avevamo un cannone nel cortile /”. La tragedia di una società – di una città, Milano - che vede la libertà conquistata e garantita soltanto attraverso l'uso perverso delle armi e della forza. “Gli ultimi viandanti / si ritirarono nelle catacombe / accesero la televisione e ci guardarono cantare / per una mezz'oretta / poi ci mandarono a cagare /”. Due bersagli colpiti con un unico lancio. L'umanità che si rinserra nelle catacombe, luogo ctonio e senza luce se non quella emanante dallo schermo televisivo. Tutti a fare scorpacciate attaccati alle post-moderne tette catodiche. E i cantautori, gli artisti che diventano i nuovi giullari di regime; dopo aver venduto l’anima al diavolo, cantando per tutti, senza più distinguere tra il giusto e il corrotto, come recita questa splendida consonanza – “per l’Amazzonia e per la pecunia”; che dopo mezz'oretta di visibilità vengono fatti ripiombare nel limbo dell'insignificanza. “ Voi avete voci potenti / lingue allenate a battere il tamburo / voi avevate voci potenti / adatte per il vaffanculo /”. Quelli voci forti e allenate, che avevano la forza di ribellarsi, si sono lasciate addomesticare dal domatore invisibile: la comunicazione di massa al servizio del capitale e del consumo. Per questo: “La domenica delle salme / gli addetti alla nostalgia / accompagnarono tra i flauti / il cadavere di Utopia /”. Crollato il muro, crolla l'unico rivale che avrebbe potuto contrastare il capitalismo. Sgretolata la riva del mondo che sognava un mondo comune, - pubblico, equo e non di parte, di tutti -, la deriva capitalistica dilaga e ci sommerge tutti. Pochi addetti alla nostalgia accompagnano il cadavere di utopia. Una rima dalla quale sgorga un corto circuito filosofico, un paradosso. La nostalgia per l'utopia, per qualcosa che non ha trovato spazio nella realtà. Dolore per ciò che saremmo potuti diventare senza mai esserlo stati. Ma La domenica delle salme si chiude con l'immagine di un corpo che seppure è provato, debilitato dalle torture che l'uomo infligge a se stesso, è ancora spaventosamente ma fortunatamente vivo. Dentro al corpo sociale seppur comatoso, il midollo popolare  continua a pullulare di energia vitale. Quel sentimento innato e ostinato alla ribellione. “La domenica delle salme / fu una domenica come tante / il giorno dopo c'erano i segni / di una pace terrificante / mentre il cuore d'Italia / da Palermo ad Aosta / si gonfiava in un coro / di vibrante protesta”.

Ogni verso di questa canzone/poesia merita un ascolto e una lettura profondissimi.

Per cui vi auguro buona lettura e – soprattutto - buon ascolto.

 

La domenica delle salme

Tentò la fuga in tram


verso le sei del mattino


dalla bottiglia di orzata


dove galleggia Milano


non fu difficile seguirlo

 

il poeta della Baggina


la sua anima accesa


mandava luce di lampadina


gli incendiarono il letto


sulla strada di Trento

riuscì a salvarsi dalla sua barba


un pettirosso da combattimento

 

I Polacchi non morirono subito


e inginocchiati agli ultimi semafori


rifacevano il trucco alle troie di regime


lanciate verso il mare

 

i trafficanti di saponette


mettevano pancia verso est


chi si convertiva nel novanta


ne era dispensato nel novantuno

 

la scimmia del quarto Reich


ballava la polka sopra il muro


e mentre si arrampicava


le abbiamo visto tutto il culo

 

la piramide di Cheope


volle essere ricostruita in quel giorno di festa


masso per masso


schiavo per schiavo


comunista per comunista

 

La domenica delle salme


non si udirono fucilate


il gas esilarante


presidiava le strade


la domenica delle salme


si portò via tutti i pensieri


e le regine del “tua culpa”


affollarono i parrucchieri

 

Nell'assolata galera patria


il secondo secondino


disse a “Baffi di Sego” che era il primo


si può fare domani sul far del mattino


e furono inviati messi


fanti cavalli cani ed un somaro


ad annunciare l'amputazione della gamba


di Renato Curcio


il carbonaro

 

il ministro dei temporali


in un tripudio di tromboni


auspicava democrazia


con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni


voglio vivere in una città


dove all'ora dell'aperitivo


non ci siano spargimenti di sangue


o di detersivo


a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade


eravamo gli ultimi cittadini liberi


di questa famosa città civile


perché avevamo un cannone nel cortile

 

La domenica delle salme


nessuno si fece male


tutti a seguire il feretro


del defunto ideale


la domenica delle salme


si sentiva cantare


quant'è bella giovinezza


non vogliamo più invecchiare

 

Gli ultimi viandanti


si ritirarono nelle catacombe


accesero la televisione e ci guardarono cantare


per una mezz'oretta


poi ci mandarono a cagare


voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio


coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio


voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti


per l'Amazzonia e per la pecunia


nei palastilisti


e dai padri Maristi


voi avete voci potenti


lingue allenate a battere il tamburo


voi avevate voci potenti


adatte per il vaffanculo

 

La domenica delle salme


gli addetti alla nostalgia


accompagnarono tra i flauti


il cadavere di Utopia


la domenica delle salme


fu una domenica come tante


il giorno dopo c'erano i segni


di una pace terrificante


mentre il cuore d'Italia


da Palermo ad Aosta


si gonfiava in un coro


di vibrante protesta.

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4 Aprile 2020

Si comincia sempre con una macchia d'inchiostro. Testimonia l'imperfezione. L'errore. Qualcosa che volevi ma non sei riuscito a evitare. Come lo schianto in moto. Il mio schianto con la moto. Poco più di un anno fa. Forse è più giusto dire ‘con’ la moto. Ero sicuramente ‘con’ lei, più che ‘in’ sella a lei. La guida non è mai stata un atto di dominio, per me. Ma uno spostarsi insieme. Complicità di movimento. Complicità nel movimento. Per anni ho pensato che la moto fosse un’occasione meravigliosa per assecondare, forse placare, il vizio della velocità. La parola velocità spaventa molte persone. Non dovrebbe fare paura, invece. Significa semplicemente muoversi, affrettare il passo. Ed è sempre stato il languore che provavo sin da bambino - immerso nella palude asfittica della vecchiaia dei miei familiari. La vecchiaia non la deducevo da considerazioni anagrafiche ma esclusivamente dalla lentezza dei movimenti di chi mi circondava di attenzioni. Temevo di rallentare il passo. Di arrestarmi. Di esserne contagiato anch’io bambino. Per questa ragione, muovermi, il movimento e – soprattutto – l’accelerazione erano schietti sinonimi di vita. Tutta la mia energia spesa a muovere gambe e braccia il più velocemente possibile. Tentativi omeopatici di immunità. E allo stesso tempo, tentativi di fuga, di allontanamento dal baratro; la presa di distanza di un bambino che non vuole essere risucchiato dal vortice della lentezza, della stasi. Di un bambino che avverte nella lentezza la presenza della morte. Nasce in quel contesto la mia passione per i motori, per tutto ciò che è in grado di produrre spostamenti rapidi, fulminei. Lo scatto come dimensione ontologica della vita stessa. Moto uguale a movimento e a mezzo di locomozione. Passare da un luogo all’altro nel minor tempo possibile. Scattare è, appunto, occupare uno spazio, prendervi posto. Conquistare una fetta di mondo prima che altri vi giungano. Da lì tutta la mia passione per i giochi di movimento: guardie e ladri, i quattro cantoni, palla avvelenata, nascondino, ruba bandiera, strega tocca color. Calcio. Avevo sempre fretta. Che poi altro non è che una forma di premura. La premura è tipica di chi si sente stretto, trattenuto, pigiato in una stanza. Senza dubbio questo è stato il retaggio di essere figlio di una madre cieca. Diventata cieca. Questo è importante. Quegli occhi per venticinque anni hanno conosciuto il movimento. La luce. Persa la vista a seguito di una malattia, il movimento sfugge al controllo, diventa un nemico. Un’ossessione. Il movimento mi veniva quindi impedito, non tanto per volontà preclusive o persecutorie, ma per evitare i disastri che possono conseguire a un movimento non accompagnato da un protettivo sguardo materno, che vigila silente sui passi della piccola creatura per impedirne lo schianto. La cecità di una madre che blinda i movimenti del suo cucciolo per l'impossibilità di seguirne le traiettorie. Da quel momento ho cominciato a sentirmi un perseguitato dal buio, dagli sguardi freddi. Dall’oscurità delle assenze. Da quel momento ho cominciato a sentirmi “borracho  de luz” - ubriaco di luce -, come scrive Garcia Lorca in un verso stupendo di una sua poesia. Scattare, accelerare per non essere raggiunti dal buio. Dal freddo. Dalla morte. Per questo il movimento, la fretta, la velocità sono state le mie azioni incontro alla vita. Contro la morte.

Cosa ho imparato, allora, dall’incidente in moto? Innanzitutto che moltissime cose accadono per puro caso. Poi, il significato profondo della parola “schianto”. La sua etimologia è: risplendere, di nuovo splendere. L’ho capito nell'istante in cui pensavo che tutto sarebbe finito, nel secondo in cui sono piombato a terra strisciando sull'asfalto e nel momento immediatamente successivo in cui mi sono rialzato, sanguinante ma camminante, e, soprattutto, vivo.

Ecco. Splendevo di nuovo. Ri-splendevo. Per qualche interminabile istante la luce si è oscurata. Poi è tornata splendere. A ri-splendere. Questo è lo schianto. Così ho capito che l'espressione “sei uno schianto” sta un gradino sopra all'espressione “ti amo”. Dire a qualcuno/a che - è uno schianto - sta a significare che quella persona brilla di una doppia luce, la luce che per una volta, almeno, ha sconfitto le tenebre più nere. E poi, si è verificata un'altra coincidenza alquanto singolare. Il 31 ottobre (2018), giorno del mio schianto in moto, la santa protettrice era Santa Lucilla. La leggenda racconta che il Tribuno Nemesio abbia chiesto al Pontefice il battesimo per sé e per sua figlia Lucilla. Questa ragazza, cieca dalla nascita, poco dopo la cerimonia avrebbe riacquistato d’improvviso la vista. Mentre mia madre, contrariamente a Lucilla, ha perso la vista, diventando cieca all'incirca al momento della mia nascita.

Buio che viene, buio che va. Luce che viene, luce che va. Le intermittenze dell'ombra.

Si sa che tutte le madri pensano di svolgere un ruolo apotropaico nei confronti dei figli. Sono convinte di scacciare le influenze malvagie. Nel giorno in cui sono caduto, evidentemente, l’apotropaicità di una madre cieca non era sufficiente a portarmi in salvo. Ecco il supplemento protettivo. Santa Lucilla. Colei che invece di perdere aveva riconquistato la vista. In quel miracolo di riagguantare la luce, in quegli occhi che tornano a risplendere, c’è la magia dello sguardo che si schianta sulle cose. Instaurando la legge del doppio, di una coppia che si forma per avere più forza ed energia da erogare nel mondo, così bisognoso di aiuto e di grazia.

Nel mio periodo di lallazione, una prima parola da me composta, prima ancora di mamma, o papà, è stata AMBO. Due secche sillabe. AM-BO. Pazzesco. Ambo vuol dire, ora che lo so, ma certamente lo sapevo già allora, lo sapevo da sempre, “tutti e due”, “l’uno e l’altro”. Come se i miei cromosomi fossero stati forgiati con il marchio impresso dalla forza dell’Altro a fianco dell’Uno. Come se il bambino lallante che sono stato avesse già inscritto il codice dell'insufficienza dell’Uno, e quindi, della necessità vitale di avere a fianco anche l’Altro. Quasi una supplica gioiosa di rintracciare subito qualcuno, qualcuna, con cui realizzare AMBO. Non sapevo che in quelle due sillabe c’era contenuto, non tanto un destino, parola scomoda per coloro che la considerano nemica di libertà o foriera di afflati mistico-religiosi, ma un carattere. Carattere non è altro che un’impronta. Impressa, scolpita in noi. Un’orma tracciata dall'inconscio sui nostri pensieri. Solidificatasi, poi, in una parola. AMBO. La lunga parabola: dalla lallazione alla caduta in moto. Dove per l’ennesima volta nell’una e nell’altra, in tutte e due, nella madre e nella santa, AMBO si è manifestato. L'Uno con me non può nulla. Necessita sempre della compagnia dell’Altro. Come se la prima parola pronunciata mi avesse cinquantatré anni dopo salvata la vita. Parola e vita che s’inseguono e si proteggono a vicenda. Così in questi giorni di strade deserte di persone e di mezzi, mi è tornato alla mente il mio schianto.

Sempre in questi giorni di stanze, invece, piene di libri e di quaderni, mi è tornato alla mente un grandissimo poeta, Pierluigi Cappello, nato nel 1967 e mancato il primo giorno di ottobre del 2017. Anche lui, purtroppo all’età di sedici anni, è stato protagonista di un tremendo schianto in moto. Il suo amico muore. Lui riporta lesioni gravissime che lo costringono a vivere il resto della vita su di una sedia a rotelle. Ebbene, nessuna poesia come la sua gronda di nostalgia per il movimento, per i gesti liberi, di cui troppo spesso – noi che li possiamo praticare – ce ne dimentichiamo la meraviglia. Tanto più il suo corpo è stato condannato all’immobilità quanto più le sue parole hanno volato altissime e furenti sulle pagine che ha scritto. I versi sono stati i suoi gesti quotidiani. Le parole i suoi muscoli. La forza delle sue poesie sono quelle di due braccia che sanno accarezzare e colpire, sollevare pesi e distendersi rilassate. Questa sua poesia né è testimonianza diretta e inconfutabile.

Lettera per una nascita

Scrivo per te parole senza diminutivi

senza nappe né nastri, Chiara.

Resto un uomo di montagna,

aperto alle ferite,

mi piace quando l’azzurro e le pietre si tengono

il suono dei “sì” pronunciati senza condizione,

dei “no” senza margini di dubbio;

penso che le parole rincorrano il silenzio

e che nel tuo odore di stagione buona

nel tuo sguardo più liscio dei sassi di fiume

esploda l’enigma del “sì” assordante che sei.

 

Scriverti è facile; e se potessi verserei

la conoscenza tutta intera delle nuvole

la punteggiatura del cosmo

la forza dei sette mari, i sette mari in te

nel bicchiere dei tuoi giorni incorrotti.

 

Ma non sono che un uomo, e quest’uomo

ti scrive da un tavolo ingombro

e piove, oggi, e anche la pioggia ha le sue beatitudini

sulla casa dalle grondaie rotte

quando quest’uomo ti pensa e fra tutte le parole da scegliere

non sa che l’inciampo nel dire come si resta

e come si preme

nel mistero del giorno nuovo in te

che prima non c’era

adesso c’è.

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2  Aprile 2020

Le malattie sono delle allegorie. Qualcosa di astratto che trova espressione in un'immagine concreta. Se la salute corrisponde al silenzio del corpo, la malattia, invece, parla. Ed essendo un'allegoria - parla sempre d'altro. Cosa ci racconta, allora, il Coronavirus? Quello che ci aveva già raccontato Greta Thunberg, la giovanissima attivista svedese, che un bel giorno ha deciso di non recarsi più a scuola per manifestare stando seduta davanti al Parlamento del suo paese. Per lottare contro il cambiamento climatico, affinché il governo del suo paese provvedesse a fare ridurre le emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera. A forza di inquinare l'aria del pianeta, arriverà il giorno in cui saremmo inadatti alla respirazione. Ebbene, quell'infausto giorno è arrivato. La malattia che sta decimando i popoli di tutti i cinque continenti colpisce proprio i polmoni. Si muore per soffocamento. E cresce la paura di morire isolati, dentro una spoglia e asettica stanza di ospedale. Una solitaria salita al Golgota. Un calvario deprivato dalla presenza dei propri cari. Questa è un'altra storia che ci racconta questa malattia. Di come la Morte – nell'occidente ipertecnologico – sia definitivamente uscita dalla scena. I media sono bulimici nel riproporre solamente le uccisioni. Le morti violente. Vite interrotte da altre vite. Ma la Morte è invece il lento consumarsi dell'esistenza individuale. L'agonia costituisce soltanto la punta dell'iceberg. La Morte è parte sostanziale della Vita. Utero e sepolcro hanno la stessa forma, non a caso. Le malattie sono delle interrogazioni violente, domandano inesorabilmente chi siamo, cosa facciamo, cosa vogliamo. Vogliamo continuare a morire in uno spazio che non ci appartiene e al quale non apparteniamo? Oppure, vogliamo voltarci a guardare quello che siamo stati fino a quasi tutto il secolo scorso? Dove si moriva tra le mura di casa, luogo da cui salivano le preghiere al cielo durante la veglia funebre e da cui partiva il funerale il giorno successivo. O meglio ancora, ad apprendere la grande lezione della natura, di cui ci siamo dimenticati di farne parte. Se i cimiteri degli elefanti parrebbero essere delle leggende, è invece accertato che il branco si stringe intorno al loro compagno morente, sostenendolo per non farlo cadere, come a volerne prolungare a tutti i costi la vita. Addirittura, alcune elefantesse hanno portato - per giorni - i cuccioli morti distesi sulle loro zanne. Ma il Coronavirus ci racconta un'ultima cosa. Suggerisce all'uomo la soluzione per continuare il suo cammino. Come? Attraverso la rianimazione. Quando un paziente entra in condizioni critiche - e necessita di cure per ripristinare le funzioni vitali compromesse - viene trasferito in uno spazio ospedaliero riservato alla terapia intensiva. La sala di rianimazione, appunto. L'umanità ha bisogno di essere ri-animata. Animare, da anima. Spirito. Da animo. Vento. Un vento che spazzi via i corpuscoli che rendono l'aria irrespirabile, provocando il nostro lento soffocamento. Animare. Incoraggiare. Infondere speranza. La poesia non si è mai sottratta al compito, alla sua immensa responsabilità. E mai come in questo momento è importante che - ancora una volta - la poesia si faccia trovare pronta. Il sommo poeta turco Nazim Hikmet sosteneva che gli uomini “devono trovare risposta, dal punto di vista artistico, a ogni loro domanda: quando hanno bisogno di leggere poesie d'amore, perché amano; quando hanno bisogno di leggere poesia di lotta, perché combattono; quando hanno bisogno di leggere poesie di speranza, perché sono vinti [...]”.

Scelgo allora - per concludere - una poesia di Erri De Luca, pronta a reggere il peso dell'aspettativa.

 

 

Predica

 

Vivi da avventuroso come fanno i santi, le cicogne,

vivi da prosciugato come fa l'erba nella siccità,

s'accuccia sottoterra per risorgere sotto l'acquazzone.

Vivi da polline sprecato un milione di volte

ai marciapiedi, ai sassi, e una sola per caso nell'ovario.

Vivi da disertore di una guerra,

proclama i vinti non il vincitore,

brinda all'insurrezione dei bersagli.

Prendi a braccetto sorellina morte

che già t'avrà cercato qualche volta

di' che l'inviti al cinema, che danno la tua vita,

seduta alla tua destra,

dille di prepararsi

che passerai tu a prenderla a quell'ora.

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11 Aprile 2020 ANDATO VERSO ZANZOTTO

 

Dieci anni fa compivo una spensierata scorribanda per incontrare un poeta che ho amato e amo moltissimo: Andrea Zanzotto. Il mio racconto di quell’incontro si è intrecciato con i suoi versi.

Estate del 2010, appunto.

[agosto insegue, agosto è in agguato, sono in agguato! / rosso insegue rosso con appetiti infertiliti]

A Rimini suda anche il cielo.

[corrotto è l'orizzonte]

La concentrazione di bagnanti è simile a quella dei pinguini su di una banchisa antartica. Occorre fuggire.

[l'estate ancora esalta / le recondite lave / della mia mente.]

Meglio in moto che a piedi. Meno fatica e si corre più veloce, lontano da quel crepitio di pelli rosolanti e impanate di sabbia. Anche se non avevo voglia di rodei tra pistoni e lamiere, mi sono messo in sella della mia Yamaha e ho fatto scegliere a lei la destinazione. Arrivati nei pressi della laguna veneta mi sono detto: Venezia o Pieve di Soligo? E ho pensato: Venezia non trasmigra la bellezza dei suoi canali......

[le case che camminano sulle acque / e che vogliono dirmi / benvenuto, se scendo dalla sera / le case che camminano sulle acque: o tu che accetti la stretta dolce dei canali]

…., almeno ancora per un po, mentre il più vecchio poeta italiano, e uno tra i più grandi non certo solo per l'anzianità, potrebbe partirsene per il ‘grande viaggio’ prima di lei.

[nuovi tuoni, nuovo l'emigrante: e non mi so decidere a partire / per voi alberi zolle e declivi / per voi mie piccole nozioni]

Così ho svoltato a sinistra e ho proseguito. Sono arrivato a Pieve di Soligo con il sole allo zenit e le nuvole che sembravano scorrere in fretta nel cielo per paura di qualche raggiata sul culo come punizione.

[luce raggiunta infine, raggiungibile in / ogni sua più riposta volontà / di astrarsi e separarsi – ma inducendo / e producendo il creabile]

Mi sentivo come quei pistoleri che arrivano nel piccolo villaggio e si mettono alla ricerca dello sceriffo, per stabilire un patto tra uomini. Nessuno a percorrere quelle strade deserte, anche di colori, non solo di persone. Unico pedone il vento.

[il vento chiamato / “la rissa degli scheletri” / anzi, sberla degli scheletri / che fa staccare le costole / agli alberi e perfino alle pietre, / mai non fallisce nel suo memo]

Fermo la motocicletta/cavallo sulla piazza, e attendo passare una signora sulla sua bicicletta/calesse, per chiedere soddisfazione alla mia curiosità:

"Mi scusi, lei sa dove abita il poeta Andrea Zanzotto?"

"Certo che si. Chi non lo conosce a Pieve".

"Mi piacerebbe andarlo a trovare, se mi potesse indicare l'indirizzo..."

"L'indirizzo è facile: è la seconda via sulla sinistra dopo quel bar che vede laggiù. Ma adesso il poeta sta riposando".

"Ma io volevo solo farle un saluto e poi me ne andrei a mangiare volentieri qualcosa di buono".

"Senta, è meglio che intanto prima vada a mangiare, e poi dopo può andare a suonare al campanello".

"Allora, dove mi consiglia di andare a pranzo?".

"A Solighetto, a due chilometri da qui. Prima della piazza sulla sinistra c'è un ristorante, che non ricordo come si chiama. Ma si mangia bene".

"Grazie signora, seguirò il suo consiglio".

 

Passo davanti alla via indicata dalla signora, la imbocco, ma non riesco a capire quale possa essere l'abitazione del poeta. I campanelli che riportano il nome non hanno scritto Zanzotto, e quelli senza alcun nome sono almeno tre. Vado a mangiare e poi ci penso. Arrivo a Solighetto e quando sono davanti al ristorante, giro la moto e torno a Pieve. Voglio mangiare lì. A Pieve di Soligo, il borgo natio. Vedo una ragazza in strada e mi precipito da lei, che mi ricambia con due indirizzi, facendomi però capire che il secondo è più adatto per me. Ha capito che sono un viandante/pistolero e che il mezzogiorno di un pistolero è sempre di fuoco.

Trattoria Alla Colomba, via Capovilla n. 135. Un luogo straordinario. Cucina a vista con tre cuochi anziani. Tre camerieri anziani. E tre donne anziane che pranzavano. La legge del tre. Io pensavo di rompere l'equilibrio, quando è arrivata l'ostessa, anziana pure lei, ma molto simpatica. Foto di Papa Albino Luciani, animali abbattuti, chincaglierie arrugginite, sedie anteguerra, pavimento di ceramica neolitica. La carta delle pietanze ovviamente non esiste. È sparsa nell'aria, negli aromi provenienti dalla cucina. Ho fatto appena in tempo a dire che non mangio carne, che mi sono trovato nel piatto polenta e formaggio e poi tagliatelle ai funghi porcini. Pesche con limone spremuto. Niente caffè perché agita. Dopo aver ringraziato l'ostessa per i ragguagli sul poeta e le gustose pietanze, mi incammino verso il luogo dell'incontro/duello.

Questa volta la dritta è perfetta: la seconda casa; quella con molta vegetazione. Il cancello è aperto. C'è un signore che legge distintamente un giornale e un bambino bellissimo e agile che corre tra l'erba e i fiori.

Chiedo se questa è la casa di Andrea Zanzotto e il signore, che sicuramente è il figlio (ha gli stessi zigomi e naso) mi dice di si. Così avanzo delicatamente nel sentiero tra l'erba e annuncio il mio intento: unicamente quello di stringere la mano a quello che mi viene confermato essere suo padre. Lui mi dice di attendere e intanto di fare conoscenza con Andrea Zanzotto. Penso che mi voglia prendere in giro, poi realizzo (il figlio di un poeta ha la mente saettante): ma è il magnifico bambino. “Ciao” gli dico, “ma allora non ho neanche bisogno di entrare in casa, perché la mano ad Andrea Zanzotto l'ho già stretta”. Ride. Ride anche il padre. A me viene da piangere, invece, per la sfacciataggine con la quale – a volte - piombo nelle vite degli altri. Un avvoltoio dolce ma ostinato. Ma poi penso – in fondo - che sia la parte di me più sana, più genuina. Sono cresciuto così. Con una ruspante e non sempre innocua invadenza.

Esce di casa la mamma di Andrea Zanzotto – che è allo stesso tempo anche la nuora di Andrea Zanzotto -, e mi dice: “sta riposando, ma acconsente a incontrarla”. Entro. È una casa umile. Borghese. Ordinata. Piena di libri che profumano di terra e di prato. Mi viene da osservare tutto, ma devo salire le scale e temo di inciamparmi se incedo a naso per aria. Entra la nuora; poi entro io.

 

Andrea Zanzotto era disteso su di una poltrona per anziani, di colore celeste, di quelle che devono avere dei motorini elettrici per agevolarne la seduta; aveva dei calzini intonati al colore della poltrona-letto, dei pantaloni neri, e una camicia rosso garibaldina, con delle vistose e spesse bretelle nere che scivolavano come due rotaie sull'esile petto sdraiato. Un Cristo mantegnico sgargiantissimo.

[ora il tempo dovrebbe vergognarsi / di fare quello che facciamo / di strampalarsi stralciarsi / sfalciarsi sfidarci infilzarci]

Uno sguardo di una vitalità pre-adolescenziale. Di scatto appuntisce il naso, stringe gli occhi e mi chiede chi sono. Mi presento e gli racconto lo scopo genuino quanto innocente della mia visita. Gli dico che volevo solo stringergli la mano. Tutto qui. Quella mano che ha scritto tante pagine che mi hanno fatto crescere, stremare a forza di ri-letture, reagire, deliziare, indignare, commuovere.

Persino piangere, qualche volta.

[possibile che non mi sia dato / compiere la più minuta / azione senza che il tempo / venga a riscuotere, usuraio atroce / la sua parte, con interessi / sempre più spropositati / esponenziali, demenziali / ogni giorno di più, / da capogiro / sempre più rapidi / rapienti capogiri?]

Lui mi guarda con un sorriso furbetto e leggermente inquieto, richiedendomi quale fosse la vera ragione della mia visita. Quando gli ribadisco che sono venuto da Rimini in moto solamente per dirgli grazie per aver scelto di essere un poeta per tutta la sua lunga vita, lui si è commosso. Sembrava quei cagnolini timidi anche di farti le feste. Io – improvvisamente - gli ho chiesto se la poesia salverà il mondo e se lui ha ancora voglia di scrivere. La sua risposta non è stata di parole, ma attraverso lo sguardo.

[un senso che non muove ad un'immagine / un colore disgiunto da un'idea, / un'ansia senza testimoni / o una pace perfetta ma precaria]

Intraducibile dalla mia mano scribacchina di emozioni.

“La poesia salverà il mondo ma non certo me dalla morte”.

Questo mi ha detto con il primo sguardo.

Con il secondo, invece, mi ha comunicato fieramente che “finché ci saranno movimenti di occhio e di braccia la poesia non morirà mai nella carne di un uomo”. Poi ha guardato la nuora come per suggerirle: tu queste cose le sai. L'unica cosa banale è stata la considerazione sui suoi acciacchi. L'ho trovato patetico questo riferimento. Ma si sa. Sono così i vecchi. E poi la poesia comincia proprio quando la vita rasenta il banale. E nulla è più crudelmente banale di una malattia.

“C'è molta grazia nel suo gesto di venirmi a trovare, così. Per niente”.

Lo so, ho pensato. È il mio modo di restituire un po di bellezza a chi l'ha cercata per tutta la vita nei versi, facendone dono alle vite di tutti.

Così ho stretto forte la sua mano a due mani, come mi aveva insegnato un anziano frate in un romito convento umbro. Due mani per raccogliere e accogliere quella mano piccola e nervosa, ossuta e quasi friabile, di vene spaccate, ma dentro la quale è passata l'energia di un tornado di parole e di versi.

[giaccio nella mia vera / voce, m'inoltro nella stasi / prima, nella luce mai saziata]

Non dimenticherò lo sguardo che mi ha accompagnato sino alla porta. Sembrava continuarmi a dire la prima cosa che mi ha comunicato quando mi ha guardato negli occhi appena sono entrato in casa.

Eccomi qui.

[ancora lo stupore, io me stesso / parlo a me stesso e la valle rilevo / e i profondi suoi veri]

Ecce Homo.

[trovo il mio vero corpo / le mie ossa e le lacrime / trovo l'amore che sottrassi / alla violenta terra / ortiche occhi aliti invetriati]

Ecce Poeta.

[per me il buon calore e il tanto latte dei sentimenti / ebbe sempre nel fondo un elemento di nera esaltazione]

È in quel preciso istante che è cominciato il duello, finito con due vincitori, credo. Nessuno aveva voglia di sparare all'altro. Sparare parole, semmai, quelle si. Anche quelle possono uccidere.

[siamo ridotti a così maligne ore / da chiedere implorare / il ritorno della morte / come male minore]

Ma le pistole, cariche di proiettili veri, hanno mirato al cielo, per farlo cadere liquefatto sopra questo incontro - fugace quanto struggente.

Sono sceso in giardino soddisfatto e ho ri-stretto la mano dell'altro Andrea Zanzotto, che giocava ancora leggero e scattante nei suoi teneri anni, e quella di suo padre e poi di sua madre.

[fieri di una fierezza e foia barbara / sovrabbondanti con ogni petalo / rosso + rosso + rosso + rosso]

E sono uscito.

[correre correre / coprendosi in affanno teste e braccia e corpi orbi / correre correre per chi / corre e corre sotto calabroni e cecchini]

E non essendo l'ultimo, non ho chiuso la porta.

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9 Aprile 2020 A RENZO DIECI  ANNI DOPO 

Poesia e filo spinato. Apparentemente sembra non esservi alcun nesso. E invece. Correva l'anno 1969, iniziato con l'autodafé volontario di Jan Palach, per denunciare il suo dissenso all'invasione sovietica della Cecoslovacchia, quando poco più che treenne mi trastullavo con dei giocattoli seduto sulla ghiaia del giardino della casa di sabbia e di pietra. Ogni bambino con un giocattolo in mano prende sempre parte a una cosmogonia. Fabbricavo mondi con gli occhi e con le mani. Quando improvvisamente arriva la Zia Elsa che mi prende furtivamente in braccio, strappandomi dalla ghiotta e feconda occupazione. Per farmi ballare. Tenendomi in braccio a spenzolo, facendomi volteggiare nell'aria. Questo vortice misto all'estrema vicinanza alla sua faccia mi ha fatto esplodere in un pianto acuto e straziato. Sorpresa della mia inaspettata reazione, con voce preoccupata mi ha chiesto: “Perché piangi?”. “Perché sei brutta” è stata la mia fulminea risposta. La zia Elsa - freddata da questa mia laconica risposta - ha provato a mitigare il mio stato d'animo, tentando di fare la simpatica, senza riuscirci. “Ma sono forse la più brutta del paese”. “No, no”, ancora una volta la mia prontissima risposta: “Più brutti di te ci sono solo il Guglielmo e la Noverina” (i miei vicini di casa dirimpettai). Dalla pronuncia della lettera 'A' di Noverina al ceffone di mia madre sul collo (in piemontese “sal cupat” - sul coppetto) non è passato nemmeno una frazione di secondo. L'ultima lettera pronunciata e la mano di mia madre sembravano lo stesso movimento dell'aria. “Non si dice 'brutta' alla zia, e nemmeno del Guglielmo e della Noverina – che potrebbero sentirti”. Doppio insegnamento in una locuzione sola. Partendo dalla fine. La falsità cortese tipicamente piemontese. Non dire che il Guglielmo e la Noverina sono brutti, perché potrebbero sentirti. Ma se non ti dovessero sentire, avanti tutta con ogni tipo di ingiurioso epiteto. L'altro insegnamento è l'aver compreso fin da bambino che attorno alle parole “brutta, brutto, brutti” si avvolgeva come un'edera il filo spinato della riprovazione ceffonata di mia madre. Mia zia Elsa, che era una donna dolcissima, premurosissima con me e adorabile, era, purtroppo per lei, una brutta donna. E quella creatura senza filtri e mediazioni che è ogni bambino, che nomina le cose per quello che sente essere, è stata tarpata nella sua espressività più autentica, attraverso la repressione violenta della spontaneità. La parola “brutta”, da quel momento, era circondata da una fitta rete di filo spinato. Un'invenzione subdola e crudele. Nell'anno 1874, in piena conquista del West, si è dato vita alla colonizzazione delle terre dei nativi americani piantando dei recinti di filo spinato per raccogliere il bestiame. Un filo facile da stendere, in cui l'animale che avesse provato a oltrepassarlo si sarebbe ferito e slabbrato. Proprio come certe parole sono state circondate dal filo spinato dell'ipocrisia, del conformismo, del decoro, del perbenismo, della convenienza, del calcolo, dell'opportunismo, dell'indifferenza, della pavidità. Famiglia, scuola, catechesi di qualsiasi religione, padroni, potere, burocrazia, politici. Tutti pronti a recintare parole con il filo spinato, ritenendole semplicemente sconvenienti. Negli ambulatori poetici che da tanti anni animo con l'entusiasmo di chi è consapevole di essere sul crinale del tempo – che sta per scadere – si viene a sapere che la poesia altro non è che dotarsi di affilate tronchesine per sabotare il filo spinato che i nostri sabotatori – a loro volta - ci avevano avvolto attorno alle nostre parole ritenute scomode. Le dittature cominciano quando qualcuno stabilisce a un certo punto che “questo non si dice; questo non si può dire”. Se noi esseri umani siamo dotati di circa sette metri d’intestino, parimenti al nostro interno scorrono centinaia di metri di filo spinato avvolto attorno alle parole, che vuol dire attorno ai nostri pensieri, e di conseguenza ai nostri gesti. La poesia è di primaria importanza perché serve a liberare le parole, così i pensieri non sono più mutilati dall'ovvio e i gesti rasentano quello che per noi umani è l'idea, forse ancora di più - la voglia -, di libertà. Poesia e filo spinato. Poesia e libertà. Questo connubio non deve essere mai dimenticato.

Così come non posso dimenticare chi mi è stato maestro di poesia e di libertà. Il maestro che mi ha insegnato a recidere i fili spinati che recintavano le mie parole, impedendole di pascolare libere nelle praterie interiori. A indicarmi come si costruiscono gli arnesi per tranciare il filo spinato e seguire, invece, il filo invisibile che tiene unito uomini e donne nel grande consorzio umano. Renzo Casali. Più che un maestro. Il maestro. Un Padre. L'uomo che ha dedicato tutta la sua vita a creare spazi e tempi e comunità in cui la creatività potesse essere il motore trainante, un'energia che anziché inquinare contribuisse a tenere pulito il mondo. A migliorarlo, persino. Il 9 aprile 2020 sono dieci anni esatti che è mancato. Che manca. Ma quando un'assenza si mantiene così forte - la vita compie il prodigio di trasformarla in una presenza meravigliosa e costante. Renzo non amava i panegirici. Gli encomi. Perché era consapevole del suo immenso valore. Per cui non ridondo. Non re-cito. Mi abbandono all'incontro, senza trappole e fili spinati, come mi ha insegnato lui.

 

A Renzo

Tu sei stato l'eternità del quotidiano

la tua mano stringeva mani e massimi sistemi

con il calore del tuo vissuto,

hai lottato contro gli schemi del potere

perché l'ausiliario 'avere' ti infastidiva,

l'amore l'hai vissuto come una recidiva

- eri maestro di ricadute - perché cercavi

il profondo di ogni situazione

e sapevi che la posizione orizzontale

è quella che fa aderire il corpo alla terra

inibendolo alla guerra e alla violenza

e ti consentiva di osservare ancora meglio il cielo

senza il velo illusorio della verticalità

che ti procurava vertigine e smarrimento

perché ti sollevava troppo rispetto

al lamento dei sofferenti,

il tuo teatro ha trasformato i perdenti

non in vincitori ma in protagonisti,

amavi l'agone, non dell'esercito in marcia

ma dell'agorà convocata in assemblea

- la virtù plebea per eccellenza -

perché tu conoscevi la differenza sottile

tra popolo e plebe,

nella seconda risiede una volontà superiore

una moltitudine piena

da cui nessuno deve essere escluso,

tu hai conosciuto anche l'altalena degli umori

l'entusiasmo che tracima in malinconia

ma non hai smesso mai di cercare una via

la via d'uscita, quella di sicurezza,

da qualsiasi dogma e comando,

attraverso l'eresia dello scambio incessante

di gesti e di pensieri.

Grazie a questo magistero

sappiamo che ogni ieri

si riversa nel presente, nel quotidiano.

 

Per questo anche oggi sento forte

la tua mano che mi indica e che mi accarezza

perché tu hai sempre saputo

che l'eternità è una certezza.

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7  Aprile 2020

L’altra sera mi trovavo con il cane a percorrere il marciapiede sul bordo di una strada deserta, davanti a casa. Osservavo rilassato e stranito questo silenzioso vuoto, questo silenzio così pieno di rumori del mio vissuto. Di colpo, come i fiori bianchi e viola del deserto più asciutto del mondo – quello di Atacama a cavallo tra il Perù e il Cile – che sbocciano ogni sette anni, mi sono apparse due immagini. Una bianca e una viola. Un’analogia e un gaudente contrappasso. L’analogia è qualcosa che lega insieme; raccoglie e riconosce qualcuno o qualcosa come simile. È energia di apparentamento, viatico alla relazione. Il contrappasso, in realtà è una corrispondenza tra pena e colpa. Dante lo ha magnificato nella sua prima cantica della Commedia. Io ne distorco - volutamente - il senso. Per raccontare un’azione contraria rispetto alla prima. Così parto dalla prima immagine ricevuta in dono. L’analogia bianca con il silenzioso vuoto.

Correva l’anno 1973. A ottobre io compivo otto anni. Di quell’anno tumultuoso, che si apriva con il ritiro degli Stati Uniti d’America dal Vietnam, dopo anni di una sanguinosissima – quanto folle, come lo sono tutte, - guerra; a New York si inauguravano le Torri Gemelle; veniva aperta l’inchiesta sullo scandalo del Watergate, in cui risultava coinvolto l’allora presidente Nixon; in Grecia diventava Presidente il colonnello Papadopoulos, già al potere dopo il golpe militare del ‘67; a seguito di un tentativo di rapina con sequestro nasceva la cosiddetta Sindrome di Stoccolma, cioè, il provare un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore; scoppiava in Israele la guerra del Kippur; esplodeva in molte città del Mediterraneo, tra cui Napoli e Palermo, una devastante epidemia di colera; l’11 settembre, a seguito di un golpe del generale Pinochet, il Presidente del Cile – Salvador Allende – si suicidava all’interno del palazzo presidenziale; ebbene, di quell’anno tumultuoso, di tutti quei tragici avvenimenti, solo uno mi aveva profondamente turbato e immalinconito. La domenica 2 dicembre si verificava il primo giorno di Austerity, cioè, a seguito di un provvedimento governativo, veniva impedito a tutte le auto di circolare sulle strade. Cosa era successo? Che molti stati occidentali, tra cui l’Italia, avevano dovuto prendere drastici provvedimenti per contenere l’eccessivo consumo energetico del pianeta. La mia preoccupazione di bambino aveva a che fare – esclusivamente - con l’angoscia di vedermi amputata la parte di futuro che mi avrebbe reso un uomo felice: potere sperimentare la gioia di sedermi al volante di un’automobile e sfrecciare a tutta velocità pigiando a fondo l’acceleratore. La leggenda della mia infanzia, tramandata oralmente da mia madre, grande affabulatrice, narra che all’età di neanche due anni, io andassi in bagno a procurarmi lo sturalavandini; poi salissi su una sedia per prendere dal mobile della cucina un coperchio; e poi mi sedessi sul pavimento, piantando lo sturalavandini sulle scure mattonelle di pietra – a guisa di cambio – e prendessi tra le mani il coperchio, come se fosse il volante e – sempre la leggenda narra – che trascorressi pomeriggi interi a simulare con la bocca il rumore di un’auto che sfreccia in pista, ruotando il volante e cambiando marcia all’imbocco di ogni curva. La prima domenica di Austerity ero incredulo e affranto. Ricordo come fosse ieri di essermi vestito e di essere uscito in strada ad aspettare che passasse un’auto. Dopo circa un’ora, mi sono seduto in mezzo al lungo rettilineo che univa il mio paese con quello confinante. All’orizzonte non si profilava alcuna sagoma che potesse vagamente somigliare a un’automobile. Mi sarei accontentato anche di un trattore, di una draga, di un’Ape Piaggio, addirittura di una motofalce per tagliare l’erba, anche se si guida solo con i piedi; mi sarei persino accontentato di una moto, di un motorino. Un Ciao. Due ruote al posto di quattro. E invece, nulla. Silenzio. Spasimo dell’attesa. E angoscia crescente. Da lì a dieci anni, anno del compimento della maggiore età, che mi avrebbe abilitato alla guida, il petrolio sarebbe scomparso o sarebbe stato venduto a prezzi altissimi e solo i ricchi avrebbero potuto acquistarlo. Così, pensavo. E viste le condizioni patrimoniali familiari, gli ultimi residui di speranza si scioglievano come neve al sole. Ricordo la tensione del mio corpo in quell’attesa che smentisse i miei timori. Molti anni dopo, quando sarei diventato un incallito lettore, avrei avvertito e riconosciuta un’analoga esperienza in quella di Giovanni Drogo, il protagonista del Deserto dei Tartari, di Dino Buzzati. Lui attendeva i Tartari, per dare un senso alla Fortezza e alla sua vita militare. Io attendevo le auto per non sentire il mio futuro amputato della gioia di potere guidare una macchina. La Storia ha poi (purtroppo) smentito le mie paure, lasciandomi aperta la cicatrice sulla parola Austerity, tradotta con austerità, che non sapevo cosa fosse, allora, nel vocabolario come nella vita. È ciò che inaridisce. Il vino aspro che secca la lingua. Forse, proprio la cicatrice aperta da quella parola mi ha tenuto lontano da tutto ciò che è austero, facendo di me un uomo che – per paura di inaridirsi - si è lasciato irrigare da ogni singola goccia che ha incontrato lungo la strada.

La seconda. Il gioioso contrappasso. Viola.

11 luglio 1982. Domenica sera. Finale dei campionati mondiali di calcio. Italia contro Germania. Tutti riuniti nell’unico bar di Settimo Rottaro, il paese in cui sono nato e vissuto sino all’età di vent’anni. Era l’estate dei miei sedici anni. Il vulcano dell’adolescenza nel corpo. Giocavo a calcio da quando avevo tre anni. Sulla piazza del paese. Asfaltata. Assolata. In pendenza. Tra la colonna dell’ingresso dell’asilo e la grondaia al centro della facciata era situata la porta dell’immaginario campo di calcio. Tutti i giorni, per più ore al giorno, a dribblare compagni di gioco, crossare nel tentativo di fare goal. Più che uno sport, una religione, una fede. Quasi un dogma (senz’altro un dogma). Così, la sera dell’undici luglio si celebrava l’evento più importante di tutto il nostro culto. La partita finale in cui la nazionale italiana era protagonista. Proprio contro la Germania, contro la quale avevamo ancora nel corpo la miscela esplosiva del ricordo di quanto accaduto durante la Seconda Guerra mondiale. Calcisticamente ci eravamo in parte vendicati con quella famosa vittoria, nella storica partita giocata a Città del Messico, dodici anni prima – nel 1970 – , in cui vincemmo per 4 a 3 con un goal capolavoro di Gianni Rivera, nel corso dei tempi supplementari. Ma non è di calcio che vi voglio parlare, ma di quello che è successo la sera dell’11 luglio 1982. La vittoria dell’Italia per 3 a 1. Con Sandro Pertini che si alza in piedi, a conferma che in qualche modo la Storia mette riparo – seppur a modo suo - alle ingiustizie. Con leggerezza. Sproporzionatamente. Ma negli occhi di Pertini – quella sera - vibrava il fuoco del riscatto della lunga lotta partigiana. Quella sera, dopo l’urlo di Tardelli (secondo solo all’Urlo di Munch) e le braccia di Pertini sollevate al cielo, tutto il popolo italiano si è riversato in strada a festeggiare. Le case si sono svuotate di tutte le persone che fisicamente erano in grado di deambulare per uscire ad abbracciare l’intera folla esultante. Appena finita la partita, insieme ai miei amici più grandi di età, ci siamo fiondati nella cittadina di Ivrea per goderci quell’esperienza unica e straordinaria della nostra vita. Il Paese di Cuccagna. Tanto oggi le strade italiane sono vuote di persone e di veicoli, tanto quella notte le strade si sono riempite dell’intero popolo di una nazione. Per una notte siamo stati solidali e uniti in un entusiastico e infinito abbraccio. Quella vittoria ci aveva reso tutti uguali. Fratelli. L’Italia illuminata da sorrisi e canti di gioia e vino e cibo che grondavano dalle case. Ecco il contrappasso gioioso cui ho assistito e preso parte. Questo senso non di folla, non di branco, non di gregge, ma di unità. Di uguaglianza. Il Comunismo realizzato. In quella colata di lava umana. Quella notte, il suolo italiano si è abbassato di un metro, a forza di saltare e di esultare per quel risultato che rappresentava molto di più che una semplice vittoria di un torneo di calcio. Pasolini, nei suoi scritti, si chiedeva quale fosse la vera vittoria, se quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori. Per una sera il problema pasoliniano è stato superato, perché tutti quei corpi esultanti erano tamburi che battevano in ogni loro parte.

E sempre Pasolini ha scritto una poesia che racconta di un flusso umano, di uno scorrere verso una stessa meta. Letteratura e realtà che s’inseguono, si intrecciano. Sull’eterna giostra di arte e vita.

 

Vanno verso le Terme di Caracalla

 

[...]

 

Vanno verso le Terme di Caracalla

giovani amici a cavalcioni

di Rumi o Ducati, con maschile

pudore e maschile impudicizia,

nelle pieghe calde dei calzoni

nascondendo indifferenti, o scoprendo,

il segreto delle loro erezioni …

Con la testa ondulata, il giovanile

colore dei maglioni, essi fendono

la notte, in un carosello

sconclusionato, invadono la notte,

splendidi padroni della notte …

 

Va verso le Terme di Caracalla,

eretto il busto, come sulle natie

chine appenniniche, fra tratturi

che sanno di bestia secolare e pie

ceneri di berberi paesi – già impuro

sotto il gaglioffo basco impolverato,

e le mani in saccoccia – il pastore migrato

undicenne, e ora qui, malandrino e giulivo

nel romano riso, caldo ancora

di salvia rossa, di fico e di ulivo …

 

Va verso le Terme di Caracalla,

il vecchio padre di famiglia, disoccupato,

che il feroce Frascati ha ridotto

a una bestia cretina, a un beato,

con nello chassì i ferrivecchi

del suo corpo scassato, a pezzi,

rantolanti

 

[…]

 

Ma nei rifiuti del mondo, nasce

un nuovo mondo: nascono leggi nuove

dove non c’è più legge; nasce un nuovo

onore dove onore è il disonore …

Nascono potenze e nobiltà,

feroci, nei mucchi di tuguri,

nei luoghi sconfinati dove credi

che la città finisca, e dove invece

ricomincia, nemica, ricomincia

per migliaia di volte, con ponti

e labirinti, cantieri e sterri,

dietro mareggiate di grattacieli

che coprono interi orizzonti.

 

[…]

 

Vado anch’io verso le Terme di Caracalla,

pensando – col mio vecchio, col mio

stupendo privilegio di pensare …

(E a pensare in me sia ancora un dio

sperduto, debole, puerile:

ma la sua voce è così umana

ch’è quasi un canto.) Ah, uscire

da questa prigione di miseria!

Liberarsi dall’ansia che rende

così stupende queste notti antiche!

C’è qualcosa che accomuna chi sa l’ansia

e chi non la sa: l’uomo ha umili desideri.

Prima d’ogni altra cosa, una camicia candida!

Prima d’ogni altra cosa, delle scarpe buone,

dei panni seri! E una casa, in quartieri

abitati da gente che non dia pena,

 un appartamento, al piano più assolato,

con tre, quattro stanze, e una terrazza,

abbandonata, ma con rose e limoni …

 

[…]

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5 Aprile 2020

La storica (e indipendente da sempre) Libreria Riminese - nata a Rimini nel 1931 e dal 2001 gestita esclusivamente dal carissimo amico di lungo corso, Mirco Pecci, - dopo giorni di chiusura forzata a causa delle misure restrittive assunte dal Governo italiano per arginare la pandemia di Coronavirus, si è attivata – nel pieno rispetto delle norme previste – per consegnare libri a domicilio. Questa mattina l’ho chiamato al telefono e ho ordinato il primo libro che lui mi recapiterà intorno all’ora di pranzo. Sono emozionato come se si trattasse del primo appuntamento amoroso di un adolescente ormonalmente surriscaldato. Mi batte forte il cuore. Davvero. Non ero mai stato, nella mia vita, venti giorni senza recarmi in libreria e quindi senza acquistare libri. Mirco appartiene all’ultima specie di librai in via d’estinzione. Un panda minore, vista la sua vigorosa magrezza. Venditor liber fulgens. Lui - non tanto e non solo vende libri. Li mette in circolo. Li inietta nel mondo. Li getta dentro la mischia. Entrare nella sua libreria non è un’esperienza di acquisto. È una trasfusione di sangue. Una trasfusione di carta e di inchiostro. Lui ama i libri visceralmente. Qualcuno potrebbe sostenere che è un collezionista. No. Lui salva i libri antichi dall’oblio. E li porta in libreria perché i lettori possano farne esperienza diretta. Toccarli. Aprirli. Annusarli. Leggerli. La sua libreria si trova nel cuore di Rimini, alle spalle della Vecchia Pescheria, in Piazzetta Gregorio da Rimini. I riminesi la conoscono per ‘Piazzetta delle Poveracce’. Poveracce in romagnolese sono le vongole. Un tempo era la piazzetta della loro vendita a quelle massaie che tornavano dal mercato coperto e attraversavano quello del pesce prima di tornare a casa a cucinare per i loro uomini, sparsi in mare o nei campi. La libreria di Mirco, oggi, si apre al centro della piazzetta, luogo notturno di aperitivi a cielo aperto. Mentre di giorno, i riminesi che amano crogiolare nel sollazzo della lettura prendono d’assalto le sue sale ricolme di scaffali sino al soffitto. Ha due ingressi la libreria. Uno dalla parte di chi si sta recando al mare; l’altro per chi sta tornando verso monte. Sembra una rete dei pescatori, per la pesca a strascico di fondale. Per pescare le poveracce, appunto. Due ingressi per raccogliere i due flussi di una città di mare. Per chi vi si reca e per chi ne fa rientro. Entrare per un acquisto è sempre un’esperienza di confronto, di scambio; un dialogo aperto non solo con Mirco, che svolge un vero e proprio ruolo di prosseneta, di mediatore tra libri e lettore; ma con tutti gli altri avventori: vecchi professori di lettere in pensione, uomini di teatro, studenti, studiosi, solitari, marinai, casalinghe, maghe, danzatrici, bulimici della lettura, cuochi, infermieri, scrittori famosi che quando sono ospiti della città non rinunciano a questo sottile piacere. Quello di trovarsi non in un lapidario ma in una lussureggiante foresta tropicale con frondosi scaffali ricolmi di libri. Uno dei veri luoghi di cui Fellini avrebbe tranquillamente potuto contribuire a creare un immaginario collettivo. Mirco è proprio come la splendida e indimenticabile Magali Noel – attrice nel film Amarcord -, che rivolgendosi al Principe Umberto formula la più famosa profferta sessuale della storia del cinema: “Signor Principe... gradisca”, da cui il soprannome “La Gradisca”. Con la stessa genuina sensualità Mirco offre libri ai suoi avventori/lettori. Per questa ragione non riesco a comprendere il senso della chiusura delle librerie, per l’emergenza Coronavirus. L’uomo – si sa per certo - non ha bisogno solo di cibo ma soprattutto di nutrimento interiore. Per alimentare pienamente la Vita. Così Mirco si è dovuto adattare all’ingiustificabile restrizione. E “Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna”. Chissà perché molti credono che il proverbio sia l’esatto contrario: “Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto”. Letto così sembra capovolgersi l’ordine naturale delle cose, tanto che in assenza di volontà e di volitività di Maometto è la stessa montagna a spostarsi e a recarsi da lui. Invece no. Sarebbe fuorviante. Il proverbio racconta qualcosa di più grande e profondo. Che quando ci accorgiamo che le suppliche e le preghiere non riescono a far smuovere la montagna, allora tocca a noi, umilmente, di rimetterci in cammino, e attraverso la fatica dei passi e il tempo lungo della marcia giungere alla nostra meta. Mirco non ha atteso che la montagna delle istituzioni sbloccasse la situazione e gli riportasse la montagna dei lettori nella sua libreria. Più che come Maometto, come manometto. Lui, infatti, ha manomesso, forzato l’inerzia di chi ci governa e si è messo in cammino verso il popolo dei lettori. Attenzione. Ho sentito suonare il campanello. Proprio in questo istante. Può essere solo lui. Mirco. Il mio fantastico libraio. Il mio fantastico Romeo. E così, come una Giulietta batticuorosa corro al balcone a calargli sensualmente la mia treccia. 

 

 

Romeo: “Per la felice luna che imbianca le cime

        di questi alberi, io giuro...”

 

Giulietta: “Oh, non giurare per la luna,

        per l’incostante luna che ogni mese muta

        il cerchio della sua orbita: non vorrei

        che il tuo amore fosse come il moto della luna.”

 

R.: “E per cosa devo allora giurare?”

 

G.: “Non giurare; o giura per te, gentile,

        che sei il dio che mio cuore ama,

        e sarai creduto.”

 

R.:   “Se il caro amore del mio cuore...”

 

G.: “No, non giurare. Ogni mia gioia è in te,

        ma non ho gioia dal nostro patto d’amore

        di questa notte; improvviso, inaspettato, rapido,

        troppo simile al lampo che finisce prima

        che si dica ‘lampeggia’. Buona notte mio amore!

        Questo germoglio d’amore che si apre al mite

        vento dell’estate, sarà uno splendido fiore

        quando ci rivedremo ancora. Buona notte,

        buona notte! Un sonno dolce e felice

        scenda nel tuo cuore come nel mio!”

 

R.:   “Oh tu mi lasci

        con tanto desiderio!”

 

G.:  “E  che desiderio puoi avere

        questa notte?”

 

R.:  “Scambiare il tuo amore con il mio.

 

G.: “Prima che lo chiedessi, io t’ho dato il mio,

      “e vorrei non averlo ancora dato.”

 

R.:    “Vorresti forse

        riprenderlo? E per quale ragione, amore mio?”

 

G.: “Per offrirlo ancora una volta. Io desidero

        quello che possiedo; il mio cuore, come il mare,

        non ha limiti e il mio amore è profondo

        quanto il mare: più a te ne concedo

        più ne possiedo, perché l’uno e l’altro

        sono infiniti. Sento qualche rumore

        nella casa; caro amore, addio!”

 

(William Shakespeare, Romeo e Giulietta, II. II. - traduzione di Salvatore Quasimodo)

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3 Aprile 2020

 

In questo tempo di responsabile isolamento, perdurante da settimane, lo spazio domestico è il luogo di contenimento del mio nomade ipercinetismo, della mia iperattività di strada. Piazze e boschi, marciapiedi e campi, verande e cortili sono stati il mio habitat naturale. Allevato e cresciuto in una casa di pietra costruita più di duecento anni fa, con mura spesse un metro, piene di sabbia e di pietre, con sbarre di ferro alle finestre, la casa non poteva non essere vissuta che come una prigione. Appena adolescente ho trasferito all'aperto la mia esistenza. Dopo quarant'anni di randagismo en plein air, sopraggiunge la quarantena domestica. Fortunatamente la casa non è la stessa. Quella era ai piedi dei monti; questa è sulla riva del mare. Certe sere, seduto sulla terrazza, respiro sale. Il mare riempie tutti i sensi. Una sensualità capace di lambire spesso e qualche volta di sommergere. Le pareti di questa casa non sono di sabbia e di pietra, ma di cemento e di carta. Il cemento lo ha portato chi l'ha costruita. La carta l'ho aggiunta io. È quella dei libri, a sostegno di ogni muro. Un muro di libri diventa subito una parete. Precisamente: ciò che sta attorno. Una parete da scalare. Un elemento verticale al quale aggrapparsi. Spazio più libri uguale spazio e tempo moltiplicati. La parete ricoperta di mensole e di libri è un orizzonte mobile che anziché allontanarsi si avvicina. Eduardo Galeano sosteneva che “l'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi e si allontana due passi. Cammino dieci passi e si allontana dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l'utopia? A questo: serve per continuare a camminare”. L'orizzonte della libreria sulla parete di casa capovolge la situazione. Noi diventiamo l'orizzonte. E quando proviamo a indietreggiare di due passi, i libri compiono due passi verso di noi. Che meraviglia. Noi trasformati nell'orizzonte, nella parte terminale del destino di un libro. In questi giorni sono sotto il più lungo e meraviglioso assedio che un lettore possa desiderare. È un modo di trasformare una quarantena in un'altalena sopra l'infinito delle storie narrate (anche) per noi, eroi e personaggi minori che mi rincorrono in preda a furori di partecipazione, la nostra immaginazione che diventa la loro dimora transitoria, la gloria di un incontro vero, dentro al pensiero come al corpo di chi legge, di chi accetta la sfida, - Re Mida – è il lettore che trasforma in presenza un'essenza contenuta nelle pagine sfogliate e da sfogliare. Leggere è – in qualche modo - imparare ad amare.

Oggi sono stato inseguito da un libro che rileggo da circa vent'anni più volte all'anno. Si chiama Centuria e lo ha scritto una tra le penne più eclettiche del secolo scorso: Giorgio Manganelli.

Una meteora luminosissima nel cielo notturno della letteratura. Centuria, come recita il sottotitolo, è - Cento piccoli romanzi fiume. Un romanzo a pagina. Non, quindi, racconti, ma romanzi in forma di dado. La lettura - il brodo. Ogni romanzo, pur essendo composto all'incirca dello stesso numero di parole, ha una diversa lunghezza, perché i tempi di lettura non collimano. Questo è il grande tesoro nascosto in questo libro unico - per forma e contenuti. Non c'è un inizio. Non c'è una fine. Ci sono molti inizi e molte fini. È un libro che il lettore compone e percorre ogni volta in modo diverso. Palindromicamente (chiedo perdono, mi sgusciano neologismi che distraggono il lettore, ma che avverto e sento necessari; palindromo è un verso, frase parola o cifra che letta in senso inverso mantiene immutato il significato). Il primo romanzo – il numero 88 -, letto aprendo il testo assolutamente a caso, parlava di oggi. Di questi giorni. Ecco la prima magia dovuta all'isolamento forzato. Sono i libri a scegliere me. A proporsi. A suggerire. A chiedermi di sfogliarli. A farsi trovare già sfogliati. Spogliami. Sfogliami. Di diventare il loro portavoce. Di caricarmeli sulle spalle. Come sempre non da Bucefalo – il cavallo di Alessandro Magno, ma da Ronzinante – il cavallo di Don Chisciotte, che ancora una volta Nazim Hikmet ha immortalato in una sua celebre poesia: “[...] Davanti a lui c'era il mondo / con i suoi giganti assurdi e abbietti / sotto di lui Ronzinante / triste ed eroico / [...]”.

Buona Lettura. Buon viaggio.

 

 

“Nella città semiabbandonata, devastata dalla peste e dalla storia, vivono poche persone che cambiano continuamente abitazione. La tetra storia della città ha fatto sì che i sopravvissuti, e i pochi che sono accorsi ad abitarla, inclinino ad un atteggiamento astratto e meditativo. Poiché le abitazioni sono innumerevoli, anche se tutte un poco fatiscenti, ciascuno si cerca una abitazione congeniale all'umore, alla ricerca, all'angustia del momento. Un signore dai capelli grigi, già cuoco presso un re scomparso, ama vivere in un palazzo di cinque piani, con trenta stanze per piano. Quando si interessa della storia abita al primo piano, al secondo se medita sulla provvidenza, al terzo ricostruisce e interpreta i propri sogni e il proprio passato, al quarto affida la metafisica e l'ascesi al quinto. In ogni piano ci sono cinque camere da letto, che gli servono a seconda che egli sia fosco, aggrondato, malinconioso, aduggiato, indifferente; non è previsto che egli sia allegro, ma se lo fosse dormirebbe per terra. Un signore minuscolo e irrequieto cerca casipole e casette, con stanze piccole, che egli accorcia costruendovi muretti divisori; è un appassionato di sussurri, di mormorii, di sospiri, e negli spazi piccoli li ascolta meglio; prende appunti per una grande opera sui sospiri; per essere sicuro di non smettere di sospirare, coltiva con attenzione una infelicità, che è minuscola come lui. Il sindaco della città – che in realtà non ha sindaco ma vi abita un tale che viene chiamato “sindaco” senza che egli ne sappia nulla – ha tre abitazioni: una colonna con scala a chiocciola e stanza in cima; una catacomba con iscrizioni latine; una gabbia per leoni: egli le fa corrispondere ai tre momenti dello Spirito, delle Tenebre Inconsce, degli Istinti. Quando il vento è impetuoso, si ode qua e là un fragore di crolli; qualche casa cede al tempo, e basta una pioggia per trasformarla in un mucchio di fango che ostruisce la strada. Un signore ostinato, già suonatore di corno di bassetto in un'orchestra classica, raccoglie frammenti di muro, mattoni, pietrame, e nel mezzo di un parco abbandonato vuol costruire un labirinto, che avrà al centro una casa di un'unica stanza; del labirinto ha disegnato la pianta, e quando l'avrà finito, la darà alle fiamme. In generale, il suo comportamento è giudicato poco socievole.”

 

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1 Aprile 2020

 

La rubrica che nasce oggi – “Quotidiano per l'eternità” -” è un'idea di molti anni fa, trasformata in esperienza da quel geniaccio di Renzo Casali. Parafrasando lo scrittore portoghese – José Saramago -, gli artisti si dividono in due gruppi: quelli che squarciano la tradizione, aprendo nuovi cammini; e quelli che si servono di questi cammini per il proprio viaggio. Così mi sento al cospetto di Renzo. Un figlio riconoscente che viaggia sul sentiero che lui ha aperto, che ha tracciato. Il compito di chi segue è portare nuove emozioni verso illogori orizzonti. Che cosa sarà un quotidiano per l'eternità? Un tentativo di raccontare la polpa del presente. Polpa è ciò che si muove con frequenza, che si può palpare, che palpita. Il palpito del presente è un dolce battito che continua a vibrare nel tempo, fino alla sua massima estensione. L'eternità. Semplicemente ciò che non ha un inizio, né un mezzo, né una fine. La polpa del presente è data dall'adesso. Ad ipsum. Sottinteso momentum, momento. All'interno del presente che ci vede soggiogati dalle contingenze, dobbiamo fare detonare l'adesso. Il momento. Cioè, il movimento. L'adesso è il regno delle scorribande nel passato, nel futuro, nella fantasia, nell'immaginazione, nel sogno, nella visione, nel ricordo, nelle letture, nella profezia, nel vuoto, nel silenzio. Mentre un uomo sta dipingendo un muro, ogni pennellata è un verso, un ritmo, un palpito. Nel presente di una tinteggiatura esplode l'adesso di un pensiero, che conduce a mondi lontani, a tenere nostalgie, a furori assopiti, a sogni che bussano alla porta del reale. Alla fine della giornata, del quotidiano, oltre al colore spalmato sulla superficie da imbiancare, esiste una polpa invisibile maturata nell'adesso che accompagna ogni istante del presente, che troppo spesso finisce nel limbo delle fantasticazioni, che non verranno mai alla luce. Questo è il quotidiano riservato per l'eternità. In un presente uguale per tutti, quello dei vogatori di una galera, evapora un adesso – il mosto della vita interiore. Vite uniche, irripetibili, assolute. Questa rubrica accoglierà il fermento di questo mosto. La scrittura, in fondo, è una forma di fermentazione. Di ribollimento. Sotto l'azione del fermento, i ricordi, i pensieri, le suggestioni che animano l'adesso, cominciano a muoversi, più o meno violentemente, sino a ricomporsi con un nuovo ordine. Questa è la letteratura. Ripenso a uno scrittore che amo molto, di cui quest'anno ricorre il centenario della sua nascita: Gesualdo Bufalino.  Tra le tante perle sgorgate dalla sua sicilianità, un impasto di lutto e di sole, mi piace ricordare questa: “La mia incompetenza a vivere sfiora il sublime”. Questa rubrica testimonierà di questa incompetenza che rasenta il sublime. Competenza. Competizione. Competere. In-competente è colui che non gareggia, che non compete. Semplicemente partecipa. A che cosa? A rispondere sono sempre i poeti, perché si esprimono  a patto che non siano interrogati.

Questa volta sono i versi di Patrizia Vicinelli - poeta(essa) che è stata un crogiolo di temerarietà e di fragilità - a dare polpa al presente.

Ho cercato di essere umano fra quelli che chiamiamo umani

trattandoli come si deve,

con la fiducia che ci fosse carne

sangue uguale sotto l’ombra gigantesca che li avvolgeva.

Ho sperato di essere io a sbagliare,

sapevo di essere pazza comunque, nonostante loro,

sapevo che anche la mia follia sarebbe cresciuta con me.

Feci di tutto per non vedere

bloccando gli schemi della memoria

credendo in un dio di uguaglianza

pensando alla natura da cui l’uomo parte

e si riflette in sfaccettature.

Ho pensato che si poteva aver pietà,

e che granelli della mia luce e del mio orrore

urlassero in pianto sull’infinito per cadere su qualcuno,

in qualche modo sotterraneo

potessero infine modificare.

Ho chiuso le mie finestre sul mondo

quando ciò per più volte non accadde.

Da uomo non puoi modificare

da uomo non puoi sperare

da uomo, certi uomini, portano il peso della terra

nelle spalle, per indicare ancora una volta l’idea di infinito

a tutti gli altri.

Ho avuto vicino quelli che non si arrendono

e non si chiudono gli occhi

e non fanno questo esercizio di resistenza

e questi amici sono tutti morti.

Dire sono morti per noi per voi, come lo capirete? 

Ho cercato di annullare quello che già conoscevo

perché non mi dà scampo, non mi dà scampo,

ed è sublime invece il soggiorno su questa terra,

avrei voluto.

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